Vagare per la Galleria Nazionale dell’Umbria, che si trova a Perugia in corso Vannucci, è come raggiungere l’ascesi nel bel mezzo del deserto. All’imprevedibilità delle dune si sostituisce una contemplazione di volti, corpi, minuzie e colori. Bellezza ovunque l’ormai distratto occhio umano si posi. Spazi grandi, luminosi e pieni d’aria. Un luogo tranquillo dove il cinguettio degli uccelli, o il gracchiare delle cicale, lascia il posto al piacevole mormorio delle persone in visita.
La GNU è però fatta anche di dettagli conturbanti, violenti e raccapriccianti, che spesso si ritrovano nelle predelle che fanno da corredo a trittici e pale d’altare. Dettagli dell’iconografia cristiana, traboccante di scene di martirio, simboli e archetipi che si sposano magnificamente con la violenza tipica del medioevo. Teschi, sangue, decapitazioni, roghi, morsi di serpente, uomini scuoiati vivi, è questa l’immagine che vediamo in molti quadri medievali e rinascimentali. Passeggiare per le sale del museo, cercando di scovarle, è eccitante come una caccia al tesoro.

Il Paliotto del Maestro di San Felice di Giano, che risale intorno al 1250, ci mostra parti del martirio, avvenuto tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C., di San Felice. Nel coloratissimo dossale, rivestimento che copre la parte anteriore dell’altare, il Santo viene flagellato, immerso in una caldaia bollente, successivamente cotto al gratin e infine decapitato, anche se più che una decapitazione sembra che gli stiano togliendo lo scalpo.
La crocifissione, atto di furia al quale siamo abituati fin da bambini e che mai gli adulti ci risparmiavano, ancora oggi provoca un tumulto di sentimenti. Nel Dossale del Farneto, collocabile intorno al 1295-1305, del Maestro del Farneto, Nicodemo, ricordato nel Vangelo di Giovanni per aver aiutato Giuseppe d’Arimatea a deporre dalla Croce il corpo di Gesù, toglie i chiodi dai suoi piedi, con un volto disperato che ci lascia immaginare un rigoglioso discendere di lacrime. Invece il teschio che solitamente troviamo raffigurato ai piedi della croce, in diverse opere, nonostante sia un elemento che incute terrore, è un simbolo di redenzione. Infatti secondo il teologo e filosofo greco Origene, il cranio appartiene ad Adamo, precedentemente sepolto sul Calvario la cui etimologia è proprio “luogo del Cranio”. Il sangue di Cristo che bagna la scatola cranica, rappresenta l’umanità redenta dalla morte e dal peccato originale.
La Madonna del pergolato di Giovanni Boccati, è uno di quei dipinti che ti catturano. Il blu della veste della Madonna è lo stesso delle grandi distese d’acqua e ti culla proprio come il mare. L’armonia degli angeli color pastello mettono tranquillità e il pergolato ricoperto di fiori
ti porta in un personale Eden dove nessuno può entrare. Se però lo sguardo si sposta in basso, verso la predella, il clima cambia da sereno e poco nuvoloso a un temporale che rompe argini di fiumi e tombini. Infatti oltre al violento arresto di Cristo e alla salita sul Calvario, possiamo osservare San Pietro Martire. Bene, il santo è raffigurato con un falcastro, una falce a rovescio, conficcato nel mezzo del capo, con il sangue che sgorga lungo il suo viso, sulla sua veste e infine sulle mani. Secondo quanto riportato dalle agiografie, poco prima di morire, San Pietro intinse un dito nel proprio sangue e scrisse per terra la parola “Credo”.

Nella Pala di San Giovanni Evangelista di Berto di Giovanni, 1518 circa, troviamo un catartico e tranquillo san Giovanni Evangelista, che inerme ai mali del mondo, beve da un calice dal quale esce un serpente, viene immerso in un calderone di olio bollente e, da queste piccole disavventure, esce illeso.
Un ultimo santo motivo di tremori della pelle, in bilico fra Eros e Thanatos, è san Sebastiano e quello di Sante di Apollonio del Celandro, 1475 – 1480 circa, è feroce quanto eccitante. Lo scrittore giapponese Yukio Mishima nel suo libro “Confessioni di una maschera”, pubblicato nel 1949, rimase folgorato dal San Sebastiano di Guido Reni, quando da ragazzo ne vide per la prima volta una riproduzione.
Scrive Mishima: ”Il tronco dell’albero del supplizio, nero e leggermente obliquo, campeggiava sullo sfondo tizianesco d’una tenebrosa foresta e d’un cielo serotino, fosco e distante. Un giovane di singolare avvenenza stava legato nudo al tronco dell’albero, con le braccia tirate in alto, e le cinghie che gli stringevano i polsi incrociati erano fermate all’albero stesso. Non si scorgevano legami d’altra sorta […]. Immaginai che fosse la descrizione di un martirio cristiano. Ma siccome era dovuta a un pittore della scuola eclettica derivata dal Rinascimento, anche da questo dipinto che raffigurava la morte di un santo cristiano emanava un forte aroma di paganesimo. Il corpo del giovane -la cui bellezza la si potrebbe paragonare a quella di Antinoo, il favorito di Adriano, la cui bellezza fu così spesso immortalata nella scultura- non reca alcuna traccia degli stenti o dello sfinimento derivanti dalla vita missionaria, che imprintano l’effigie di altri santi […]. Quella bianca e incomparabile nudità scintilla contro uno sfondo di crepuscolo.Le braccia nerborute, braccia d’un pretoriano solito a flettere l’arco e a brandire la spada, sono levate in una curva armoniosa, e i polsi s’incrociano immediatamente al di sopra del capo. Il viso è rivolto leggermente in alto e gli occhi sono spalancati, a contemplare la gloria del paradiso con profonda tranquillità. Non è la sofferenza che aleggia sul petto dilatato, sull’addome teso, sulle labbra appena contorte, ma un tremolio di piacere malinconico come una musica. Non fosse per le frecce con le punte confitte nell’ascella sinistra e nel fianco destro, egli sembrerebbe piuttosto un atleta romano che allevia la stanchezza in un giardino, appoggiato contro un albero scuro.
Le frecce si sono addentrate nel vivo della giovane carne polposa e fragrante, e stanno per consumare il corpo dall’interno con fiamme di strazio e d’estasi suprema. Ma il sangue non sgorga, non ha ancora infuriato il nugolo di frecce che si vedono in altri dipinti del martiri di San Sebastiano. Qui invece, due frecce solitarie mandano le loro ombre quiete e delicate sopra la levigatezza della pelle, simili alle ombre d’un ramo che cadono su una scala di marmo”.
Guardando l’opera di Sante di Apollonio del Celandro, e apportando le dovute differenze con quella di Guido Reni, le parole di Mishima contribuiscono a scatenare l’impeto delle umane fantasie. Il sangue, in questo caso, gocciola scuro lungo i muscoli di un corpo etereo, le frecce sono tante e la luce colpisce forte il corpo perfettamente scolpito.
Lo scrittore giapponese ha saputo delineare con precisione quello che alcuni occhi avvertono, mentre scrutano l’addome teso e il petto dilatato di san Sebastiano.
La Galleria Nazionale dell’Umbria, come abbiamo già detto, è un luogo dove perdersi, ogni angolo nasconde misteri e particolari violenti, degni del migliore film splatter della nostra epoca. Ora, tocca solo a voi scoprire tutte le altre scene di cui non vi abbiamo parlato, non volevamo togliere a nessuno il gusto della scoperta.
