L’antefatto risale al 2002 quando, per volontà di Valentino Martinelli, la sua collezione privata fu donata al Comune di Perugia.
Martinelli fu un professore di origine romana di istanza all’Università di Perugia durante gli anni Sessanta e Settanta, dove ricoprì la cattedra di storia dell’arte medievale e moderna. Alla sua morte, per volontà testamentaria, decise di fare questo cospicuo lascito inerente alcune importanti opere da lui raccolte nel corso della sua vita. Dal 2002 fino al 2014 la collezione è stata locata dapprima all’interno di Palazzo Penna, mentre dal 2015 ne viene cambiata l’ubicazione per essere spostata all’interno della Galleria Nazionale dell’Umbria.
Tra le varie tipologie di manufatti artistici che comprendono tele, statue, acqueforti, disegni, medaglioni e quant’altro, si contano ben sei opere del maestro dell’arte barocca Gian Lorenzo Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680).
Stiamo parlando di un’opera pittorica e di cinque manufatti plastici, più nello specifico uno in cartapesta, due in terracotta e ed altri due in bronzo .
La tela raffigura un ritratto, di cui di fatto si sa ancora molto poco, tanto che è in dubbio la stessa identità dell’effigiato. Pochi sono gli elementi di identificazione: una testa maschile con capelli, pizzetto e baffetti grigi, poggiata su di un ampio ma semplice colletto bianco sopra un vestito nero, il tutto su sfondo scuro. Secondo il Martinelli si tratterebbe di tale Johan Paul Schor, un pittore e architetto austriaco che soggiornò a Roma dal 1640 circa sino alla fine della sua vita avvenuta nel 1675. Ovviamente, tralasciando il tortuoso percorso che ha portato all’identificazione ancora incerta del soggetto dipinto, quel che davvero interessa è l’individuazione dell’autore del dipinto ricaduta su Bernini, dato che non c’è nessuna firma che confermi la paternità del quadro. Gli elementi che hanno portato gli esperti a questa conclusione sono il taglio della figura, il rapporto tra volto e colletto, la rotazione della testa e l’indirizzare lo sguardo verso un punto che non è lo spettatore, espediente che imprime sì un’aria assente, ma che al contempo contribuisce ad una forte definizione psicologica. Questi dati sono così spesso riscontrati nella ritrattistica berniniana da far entrare anche tale misteriosa opera nel ventaglio dei manufatti di pugno del grande maestro del Seicento.

Rimangono però ancora più interessanti, o forse soprattutto più esteticamente appaganti, le opere plastiche, a partire dal Modello per l’Anima Dannata, una rara cartapesta tinta a bronzo giunta quasi miracolosamente sino a noi. Il mezzobusto, se così possiamo definirlo, raffigura appunto il ben più famoso e omonimo marmo, sempre di mano dello stesso Bernini, oggi locato in Palazzo di Spagna a Roma. L’opera in cartapesta fece probabilmente parte del processo ideativo del finale modello appena nominato; alta è la probabilità che fu una “prova” , ricavata da precedenti modelli di terracotta o gesso, atta a valutare l’esito finale della scultura per controllarne le proporzioni e gli effetti della luce, prima del passaggio finale del lavoro su marmo o bronzo.

Sono invece eseguiti in bronzo dorato le due figure del Cristo “vivo” e Cristo “morto”, realizzati invero da Ercole Ferrata, ma su disegno e modello del Bernini. Le due statuette fanno parte del più ampio progetto di un nuovo corredo per gli altari di San Pietro in Vaticano, voluto da papa Alessandro VII Chigi, progetto che si svolse alla fine degli anni Cinquanta del XVII secolo. Dai documenti risulta che originariamente erano previste ben ventisei di queste statue delle quali ne furono eseguite venticinque e ad oggi, sugli altari della basilica romana, ne rimangono ventitré. Essendo i due bronzi non di mano di Bernini, il vero cruccio critico è quello inerente la fedeltà del Ferrata riguardo ai modelli del noto artista rispetto alla sua esecuzione, dubbio che però sembra essere sciolto dal documento in cui lo stesso Ferrata dichiara che le suppellettili sacre sono state fatte “conforme il modello del Sig. Cav. Bernini Architetto”, documento vistato dal Bernini in persona.

Il Bozzetto per un Monumento equestre a Luigi XIV è foggiato in terracotta, presenta lacune, linee di fratturazioni e scheggiature, è lavorato a tutto tondo e vede un basamento da cui si erge il cavallo rampante e la figura del regnante in sella. Quest’ultimo probabilmente fu lavorato a parte ed inserito sopra l’equino in un secondo momento. L’argilla è stata lavorata con le dita e mediante stecche e un cavaterra a sezione ovale di piccole dimensioni. La presenza dei grumi ed i solchi della foggiatura indicano l’utilizzo di una terra molto bagnata ed una lavorazione che non prevedeva rifiniture, tecnica abbastanza tipica di un modellato ancora “bozzetistico” atto a trasporre velocemente l’idea aleatoria nella concretezza della terza dimensione. Il cavaliere è quasi nudo nella parte superiore, con un ampio petto ed un mantello che scende svolazzando dalla spalla destra. Sul lato breve e frontale del basamento si riconosce il Giglio di Francia, sul fianco destro uno stemma appena accennato. Il cavaliere è ritratto all’antica e in forma idealizzata, secondo gli stilemi del tema rappresentato, impressione confermata dal basamento che richiama quello del celeberrimo Marco Aurelio capitolino, anche se l’ardita e dinamica composizione sembrano alludere ad un giovane Alessandro Magno in groppa al suo Bucefalo. Il giovane monarca ritratto come un valoroso trionfatore già anticipa i temi che saranno ripresi dal Bernini nella statua dedicata al sovrano, oggi al Louvre e realizzata tra il 1669 e il 1677. Alcuni critici sostengono l’ipotesi che il piccolo modello deve la sua genesi , per composizione, dinamismo e tematica, al progetto mai portato a termine di una statua dedicata al Re Sole a Roma, sulla collina del Pincio, progetto fortemente voluto dal cardinale Mazzarino per decretare l’importante presenza della nazione francese nella Città Eterna. L’idea ardita di fare del Pincio il nuovo Campidoglio del re di Francia fu però irrealizzabile, non solo perché a Roma solo ai pontefici era concessa la celebrazione mediante statue onorarie in pubblica piazza, ma anche perché i rapporti tra l’allora vicario di Cristo papa Alessandro VII e Mazzarino non erano tra i più distesi.

Ancora in terracotta è l’ultimo pezzo preso in esame, forse il più bello (secondo un modesto parere personale) di quelli giunti alla Galleria Nazionale, il Modello per un “Cristo ligato”. Anche in questo caso si parla di un opera di modeste dimensioni, ma più che apprezzabile data la finitura del modellato. Purtroppo sono andate perdute la mano sinistra e le dita di quella destra, mentre la gamba sinistra fu risarcita in gesso in un antico restauro.
La terracotta, posta su di un basamento di ardesia, raffigura il Cristo con le mani legate da una cordicella, seduto su di un cippo; il corpo nudo è appena coperto da un lungo e morbido drappo che scivola dalla spalla sinistra lasciando scoperto il busto, la schiena leggermente incurvata ed il fianco destro. La copiosa ed elegante cascata di panneggi contrasta con le morbide e tornite superfici del nudo, rifinite al massimo grado, il tutto unito nella leggera torsione e nel lieve ripiegamento del corpo. I capelli suddivisi in fluide piccole ciocche di riccioli ricadono naturalmente sulle spalle, mentre il viso presenta lineamenti raffinati e di ideale bellezza, che lasciano trasparire un’espressione dolente atta a cogliere la sofferenza fisica e spirituale del Cristo, ma con una tale sobrietà e compostezza da schivare la stereotipata enfasi devozionale. La lavorazione ad unguem delle superfici lascia pensare che il modello servì per una la probabile colatura di un bronzetto. Molti i motivi per vederlo come un capolavoro in scala del Bernini, primo fra tutti il serrato confronto con la statuaria antica messo in atto dallo scultore, visibile nella ricerca tra l’armonia delle proporzioni del corpo e l’espressione dei sentimenti, infine il confronto con un suo grandissimo predecessore, Michelangelo; il volto del Cristo rimanda innegabilmente a quello della famosa Pietà di San Pietro, mentre la torsione del corpo richiama alla mente il Mosè, oltre che le altre opere a tema cristologico del genio toscano.
La scelta iconografica è in linea con i soggetti berniniani dove l’assenza di elementi quali la colonna o i carnefici, tipici del momento raffigurato che di pochissimo precede la tremenda “flagellazione”, sono sottintesi dalla posa dolente, il volto sofferente, le mani legate, nonché dal contrasto creato dalla percezione di tensione e contemporaneamente di abbandono delle membra.

Fonte: Raccolte della città di Perugia – Collezione Valentino Martinelli, Electa/Editori Umbri Associati, 2002.