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Roma – autunno del 1508; Giovanni Battista Caporali percorreva Borgo Nuovo, tra Castel Sant’Angelo e San Pietro, e per molti passanti riconoscere la sua posizione sociale non era affatto difficile. Indossava un abbigliamento comune a molti pittori dell’epoca: una berretta nera che raccoglieva la folta capigliatura, una mantella e una veste anch’esse nere; solo il bianco della camicia che lasciava intravedere il colletto cedeva a una nuova tinta, quasi volesse incorniciare il volto colorito dal sole.

Procedeva frenetico e teneva sul pugno della mano un foglio arrotolato, dove vi erano disegni e abbozzi di angeli libranti, e, ansioso di mostrarli al suo maestro, si avvicinava verso palazzo Caprini. Giunto di fronte alla residenza, ancora coperta dalle impalcature di legno, apprestò il passo ed entrò in una bottega del piano terreno: Perugino, Pinturicchio, Raffaello e Bramante lo attendevano: dovevano discutere di molte scelte artistiche su alcuni cantieri, tra il Vaticano e Santa Maria del Popolo.

«Buona maniera, mio caro Bitte»; i più affezionati lo appellavano così, altri lo chiamavano Giovan Battista, e altri Benedetto; ma Perugino gli era maestro e amico e mentre commentava i cartoni lo chiamava con quel diminutivo amorevole.

Procedeva l’esame di quei disegni e il maestro sembrava entusiasta, ma Bitte, piuttosto esigente, non sembrava sicuro della riuscita di quelle figure; i suoi occhi erano volti a nuove immagini, quelle di Raffaello, quel giovane pittore dal carattere estroverso, come estroverse erano le sue nuove idee artistiche che gli davano nuove emozioni.

Altarino Giovan Battista Caporali a Panicale

Il ritorno a Perugia

Nel 1518 Bitte era da tempo un artista affermato e si apprestava a gestire la sua bottega perugina, sistemata tra i vicoli del rione di Porta Eburnea:

«Prendi de’ vetri coloriti e apprestati a pestare co’ la pietra; oh… oilà, te l’evo ditto io d’ascoltamme! Che porcareccia! tu me fé doventà matto… porta i’ legname»; ordinava, intimava, insomma, lavorava per la sua arte.

Il legno, o la pala – così la chiamavano i pittori –, arrivò piallato e levigato e gli fu posato di fronte: era formato da più tavole, unite in trasversale. Dopo un esame scrupoloso Bitte si apprestò a tagliare dei pezzi di tela di lino e li incollò sopra i nodi e le giunzioni delle tavole: la pala doveva essere più solida possibile, durare nel tempo, altrimenti i futuri rigonfiamenti del legno, dovuti dai numerosi sbalzi termici, avrebbero squarciato la pellicola pittorica. Terminato così il telaggio, Bitte inizia a ingessare l’intera superficie, preoccupandosi che sia perfettamente levigata, e, una volta asciutta, posò su di essa il cartone con il disegno elaborato:

«Ben fatto», disse Bitte al garzone, «porta il carbone, presto!»; il ragazzo si era occupato di perforare, con dei piccoli buchi, le sagome disegnate sul cartone, creando una sorta di ricamo a uncinetto. Esaminato il lavoro Bitte prese un panno sottile, gli ripose della polvere di carbone e lo chiuse, formandone un sacchetto. Assestatolo un po’ si mise a tamponare i fori che seguivano il disegno e finito il lavoro, chiamato ‘lo spolverò tra i pittori, tolse il cartone e vide riportato sul piano ingessato tutte le figure: san Giuseppe, gli angeli, la Vergine…

Bitte seguì con la stesura dei colori e, man mano, i garzoni impastavano i pigmenti: delle polveri sottilmente macinate e mescolate con l’olio di lino. Poco alla volta le figure fuoriuscivano dal bianco della tavola e si percepiva sì l’influenza del maestro, ma con maggior corposità: l’immagine del Dio padre era ormai lontana dalla dolce compostezza architettonica di Perugino; il tutto si riempiva di colori e nuvole rigonfie, alla nuova maniera di Raffaello e della pala Baglioni che Bitte vide prima di partire per Roma. In quell’opera tanto innovativa il Dio padre non era più rinchiuso nella rigida inquadratura della pala, ma veniva fuori per conquistare lo spazio dell’osservatore.

Il 18 novembre del 1519 Bitte usciva dalla Sala dei Notari, accompagnato da un garzone e dai due committenti Antonio di Domenico Puccianti e Berto Nicola di ser Giovanni. Sulla piazza, accanto alla maestosa fontana, il carro era già pronto, con la pala ben legata all’interno di un cassone. Il pittore si assicurò che fosse tutto al suo posto e, una vola sicuro, montò sul carro, dette un colpo di bastone ai due buoi, e seguì i committenti diretti verso la chiesa di san Michele Arcangelo, nel piccolo borgo di Panicale.

La sua presenza nel momento del montaggio del dipinto sull’altare era legata sì a motivi economici: collocata l’opera avrebbe ricevuto il compenso di 25 fiorini e, documentata l’avvenuta consegna, avrebbe certificato l’impegno di ricevere i successivi fiorini: 25 due mesi dopo e altri 30 alla scadenza di un anno; ma quanto più premeva Bitte era vedere fino all’ultimo momento quell’opera a lui cara: la considerava la meglio riuscita di tutta la sua carriera; era un’ottima sintesi tra i modi dolci di Pietro Perugino e la nuova maniera di Raffaello Sanzio.

Panicale - dettaglio - Giovan Battista Caporali