Il passato non è poi così lontano come a volte si tende a credere. Le grandi civiltà che hanno occupato nei secoli la nostra penisola hanno lasciato segni più o meno tangibili della loro presenza non solo a livello archeologico, ma anche sul piano culturale, linguistico e ideologico.
Se tutti, a partire dalle pionieristiche ricerche linguistiche di Dante, sanno che l’italiano è una lingua neolatina, quanti immaginerebbero che alcune parole oggi in uso derivano dall’etrusco attraverso la mediazione del latino? La risposta è ovvia: pochissimi al di là degli etruscologi e di alcuni addetti ai lavori. Di questa lingua agglutinante, non indoeuropea, un tempo del tutto sconosciuta, siamo arrivati a comprendere le principali strutture e il loro funzionamento, benchè di molte parole non si conosca ancora il significato. Più di 13.000 i lemmi raccolti, di cui la maggior parte è costituita da nomi di persona e il resto da vocaboli riconducibili all’ambito funerario e sacro. Ma quali tracce ha lasciato questo antichissimo idioma nel nostro parlato di tutti i giorni? Innanzitutto non tanto la “c” aspirata tipica del toscano, che non sembra direttamente correlata alla lingua dei Rasna (di cui peraltro si conosce bene la pronuncia), quanto piuttosto alcune parole come “satellite” o “persona”. La prima deriva certamente dall’etrusco zatlath, formato da zatl (“ascia”) e dal suffisso –ath, morfema che sta a indicare “colui che compie l’azione”, il cui significato originario è dunque “colui che impugna l’ascia”, ovvero il littore, la guardia del corpo.

Fu Galileo Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a utilizzare per primo il termine “satellite”, prendendolo dal latino satelles (“uomo di scorta”), proveniente a sua volta dall’etrusco zatlath. Ancor più interessante l’origine della parola “persona”. La prima testimonianza di questo termine, nella forma etrusca phersu, ci arriva dalla tomba tarquiniese degli Auguri (seconda metà del VI sec. a.C.). L’iscrizione è riferita a una figura maschile con volto coperto da una maschera barbata nell’atto di regolare un sacrificio cruento nell’ambito dei giochi funebri organizzati in onore del defunto. Il personaggio, nella scena in questione, è posto alle spalle di un uomo con la testa chiusa in un sacco, che tenta di difendersi dal micidiale morso di un mastino. Nella stessa tomba, phersu, è raffigurato anche nell’atto di danzare e, in altri contesti, sembra rivestire il ruolo di mimo-giocoliere. Una figura poliedrica dunque, forse personificazione di un demone legato ai giochi funebri, la cui principale caratteristica è quella di indossare una specifica maschera. Con ogni probabilità i Romani introdussero il termine persona dall’etrusco phersu-na, con l’aggiunta del suffisso di appartenenza -na a significare “l’attrezzo del phersu”, ovvero “la maschera”.
L’altra possibile etimologia di “persona” dal latino personare, ovvero “parlare attraverso”, non solo non escluderebbe la medesima derivazione dall’etrusco phersu, ma costituirebbe un forte elemento a sostegno della tesi, dal momento che il termine è strettamente correlato alle maschere utilizzate dagli attori teatrali. Fin dalle sue origini, dunque, la parola ha a che fare con il volto, segno inconfondibile dell’identità di ciascuno. Sovviene la sottile riflessione di Pirandello sul confine tra realtà e apparenza, verità e finzione, che trova proprio nel teatro la sua massima espressione. Si pensi ai Sei personaggi in cerca d’autore e, in particolare, alle parole del Padre (uno dei personaggi), quando, rivolto al capocomico, sostiene che i personaggi sono più veri di qualunque persona reale, avendo una vita predeterminata, che non può cambiare da un giorno all’altro. E se è vero che, nella visione pirandelliana, “c’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro; e quando stai solo, resti nessuno”, questo non poteva certo valere per phersu, personaggio la cui inconfondibile identità era fissata da una maschera inamovibile, sempre riconoscibile, sicura, più vera del vero. In ogni rappresentazione scenica antica e moderna (a partire da Goldoni) l’attore non può eludere la propria identità, ed è così che ogni finzione cessa di essere finzione, e tutto ciò che viene messo in scena assurge a verità assoluta, sempre ripetibile e, in qualche modo, eterna.
