Una prima mattina d’agosto del 1425 Gentile da Fabriano avanzava per le campagne toscane; con una piccola dose di vanità indossava il lucco, una lunga e ampia veste di panno rosso, ricca di pieghe, voluminosa e annodata al collo da nastri.
Alcuni lo osservavano e comprendevano a pieno la sua provenienza: indossava un abbigliamento piuttosto tipico tra le vie di Firenze. Si dirigeva per le terre umbre, diretto a Orvieto, aveva ricevuto una lettera dall’Opera del Duomo, con l’incarico di affrescare l’immagine della Madonna, e procedendo a trotto di un modesto cavallo si dilettava a esaminare con molta attenzione la moda del suo tempo: un giovane sfrontato metteva in bella vista un abito corto con calze molto aderenti; le calze erano divise tra loro e unite alle mutande in bella vista e bastava un qualsiasi movimento che si intravedevano cosce e brache:
«Bada lì» esclamò con ilarità Gentile «accidenti a te, se ti vedesse il senese con il culo di fuori…».
«Ah, cencio dice male di straccio!», rispose il giovane un po’ stizzito, «dicono che l’é un pendaglio da forca quel frate!».
I due si riferivano alle famose prediche perbeniste di fra Bernardino da Siena, quell’uomo che batteva le strade, predicando contro l’usura e giudicando aspramente anche l’estrosa moda degli uomini. Eh sì, in quegli anni la moda era cosa assai seria, i più facoltosi facevano la corsa allo sfarzo e Gentile, estasiato, notava tutti i particolari, riproducendoli minutamente nei suoi dipinti.
Lasciato alle spalle il giovanotto, ormai lontano qualche miglio, il pittore osservava un uomo riccamente vestito con una giornea broccata d’oro e argento, tenuta da una cintura che era un capolavoro di gioielleria. Quel signore attendeva impaziente che il servo, rozzo, con le spalle voluminose e un volto grottesco, finisse di smontargli gli speroni dai piedi, anch’essi piuttosto sfarzosi; insomma, una scena comune ai suoi tempi, e Gentile ricordava di averla rappresentata in un’opera per la chiesa di Santa Trinita, a Firenze, quella città immersa da una moltitudine di stoffe e oreficerie, a lui care già agli albori della sua carriera in Lombardia, ma caratterizzata da un nuovo e diverso umanesimo, dove le figure erano profonde, intime, essenziali.

Orvieto e il cantiere dell’Opera del Duomo
Passavano le prime ore del pomeriggio e il sole era pronto a tramontare: batteva i suoi raggi sulla facciata del duomo, illuminandola di un rosa candido. Gentile, superbo, si apprestava a entrare, atteso dai membri dell’Opera, doveva osservare accuratamente il luogo da affrescare e discutere del suo compenso. Appena entrato notò i committenti posti nel luogo che desideravano decorare, alla sua sinistra, e subitaneamente notò il dolce fascio di luce che entrava dalla controfacciata: batteva dolcemente nel muro della navata, al di sotto della finestra, rilevandosi quasi come uno spazio da riempire.
«Una Madonna col bambino e gli angeli, per un compenso di 10 fiorini e da farsi entro la fine di ottobre» disse uno dei prelati «e la luce… spero sia di vostro gradimento».
«25 fiorini, illustrissimo», Gentile approfittava della fama e gonfiava il prezzo, «e aggiungerò parti d’oro all’opera».
«15 fiorini», controbatté il prelato.
«20, tenete da conto delle spese…».
«18 fiorini più il materiale».
«Affare fatto».

La trattativa era ormai terminata e Gentile pensava a quel fascio di luce, ne era colpito, lo riteneva un ottimo espediente per far brillare le dorature delle vesti; ma non bastava, i fedeli, entrando, non dovevano solo immergersi nella vista della Madonna col bambino, dovevano entrare in contatto intimo con i personaggi, dialogare con loro. Pensò a quanto appreso a Firenze, agli studi sulla prospettiva di Brunelleschi, al quel nuovo mondo artistico che non si fermava più nella superficialità delle immagini, addentrate nei dettagli più caratteristici, ma scavava in fondo agli animi dei personaggi, donandogli quell’umanità che nel crocifisso contadino di Donatello si apprezzava a prima vista; dunque prese un carboncino e cominciò a schizzare l’immagine.
Concluso il disegno e iniziato a dipingere, la novità era evidente: Gentile ebbe sempre caro il soggetto della Madonna seduta, col bambino Gesù fra le braccia; in passato lo dipinse più e più volte, ma mai aveva donato ai due personaggi tanta affettuosità; nelle prime opere la madre e il figlio sembravano quasi estranei l’uno all’altra, mentre successivamente la potenza dell’affetto materno si concentrava sempre più allo sguardo della madre, ma i broccati preziosi delle vesti occupavano ancora buona parte della visione; adesso, Gentile, mentre dipingeva la parete del duomo di Orvieto, si avvicinava all’opposto a nuove idee: rendeva sì la pittura simile a una materia preziosa, angeli vibranti vaporosi e traslucidi e abiti minuziosamente ornati e dorati, ma sprigionava tutto il suo rinnovato spirito naturalistico col dolce sguardo della madre, mentre il bambino, giocoso, tentava di muovere il suo corpo verso lo spettatore, come se volesse giocare, chiedergli un contatto fisico piuttosto che ostentare il suo potere; e come non sottolineare questo dialogo divino e al contempo domestico con lo spazio architettonico: da buon pittore, pronto ad assorbire sempre nuove idee, Gentile ricordava la lezione di Brunelleschi e chiudeva i due personaggi in una scatola prospettica diretta verso la porta d’ingresso, così che il fedele, appena entrato, dirigesse i suoi occhi verso il suo centro, a quella finestra aperta e che mostrava la stanza di una tenera e lucente dimora.
