Quel pomeriggio Gian Carlo passeggiava pensieroso sotto il sole cocente, che batteva senza sosta sulla piazza del duomo di Spoleto. Indossava una camicia bianca ed un semplice pantalone distinto ed ordinato, abbinato ad una giacca, che però non portava sulle spalle. Era troppo caldo.
Camminando lentamente, pensava alla prossima edizione del suo Festival; quella del 1967. Erano passati quasi dieci anni dalla prima volta che aveva portato in scena quell’iniziativa. Eppure ancora provava un’enorme emozione nel curare ogni singolo dettaglio della sua creazione. Anche un po’ d’ansia: tutto doveva essere perfetto. O perlomeno doveva essere percepito come tale.
Un Festival perfetto poteva nascere solo da idee geniali e da scelte ragionate. Un flop sarebbe stato sempre e comunque colpa sua.
Per quell’anno intanto aveva scelto, grazie anche ai suggerimenti di alcuni collaboratori, di portare sulle scene il Don Giovanni di Mozart. Una buona idea, popolare, ma una buona idea. Le note dell’opera lo ossessionavano da giorni e non gli davano pace neanche sotto quel sole battente. In particolare gli risuonava nella testa l’aria del commendatore, nel secondo atto dell’opera. Gli rimbombava tra le orecchie come se a cantarla fossero state le pietre del Duomo di Spoleto. Accadeva tutto in silenzio, nella sua mente. È tipico dei buoni musicisti sentire musica anche quando non c’è: ripassarla e studiarla anche senza emettere o sentire suono.
-Don Giovanni, a cenar teco
m’invitasti, e son venuto…
-Non l’avrei giammai creduto.
Ma farò quel che potrò!
Era un pezzo così bello e tenebroso, un finale così ricco di giustizia verso un uomo come Don Giovanni, così indegno, che non poteva che piacere al suo pubblico. Era un’opera nota: certamente, con i giusti interpreti e la giusta regia, avrebbe fatto un gran successo.
Ma servivano altre idee. Molti erano gli spettacoli del Festival dei Due Mondi. Qualcosa di completamente innovativo, se possibile nuovo, era necessario. Serviva una rappresentazione che avrebbe fatto parlare di sé sui giornali, automaticamente. Ma quale?

Proprio nulla, a parte la scena finale del Don Giovanni, gli frullava per la testa. Era in stallo. Di certo il clima torrido non lo aiutava a ragionare. La città di Spoleto era ancora vuota come spesso ad Agosto. In quei momenti gli sembrava più che mai la sua “Bella Addormentata”, come amava chiamarla lui, Gian Carlo Menotti. Dopo il suo Festival, come a volersi riposare, diventava proprio così: una cittadina dormiente, silenziosa, calda e a tratti desolata.
Ogni tanto per la piazza passava una bicicletta, spesso quella del postino. Ancora più raramente una motoretta. Si sentiva stanco come la sua città in quel periodo, ma bisognava già ricominciare a pensare al Festival. Pensare all’anno successivo. Quell’evento era suo figlio, tanto quanto Francis. Li aveva adottati entrambi ma erano comunque parte di lui e sua responsabilità. Le responsabilità stancano sempre ma danno anche soddisfazioni impagabili.
Rimuginando su questi pensieri, Gian Carlo si era seduto su uno scalino accanto alla propria casa: quella che chiamavano con riverenza, Casa Menotti. Si trovava davanti allo splendido Duomo di Spoleto, con i suoi cinque rosoni e la facciata in pietra. Fronteggiava anche l’esterno del Caio Melisso, quel teatro che aveva ospitato molti degli eventi del Festival.
Visto da lì, dalle scale della piazza, non sembrava un grande edificio. Nascondeva il proprio cuore nobile. Eppure all’interno ospitava 300 posti, tra palchi e platea e gli affreschi del suo soffitto tendevano al divino: anche perché rappresentavano Apollo e le muse.
Gian Carlo si chiedeva se era degno di realizzare ogni anno, dentro quell’antichissimo teatro, i suoi spettacoli? Non sapeva neanche perché gli frullassero per la testa tutti questi dubbi. Forse era solo stanco.
Aveva appena poggiato la testa fra le mani con un sospiro quando la voce di un ragazzo lo riportò alla realtà.
“Che ci fai lì a cuocere al suole Gian Carlo?”, era Francis, il suo ragazzo. Sorridente, affacciato al balcone, con freschezza della sua giovinezza gli strillava allegro.
“Adesso salgo…non preoccuparti!”, gli rispose.
“Stai pensando all’anno prossimo vero? A cosa mettere in scena. Falla riposare un po’ quella testa signor Menotti. Le idee a volte arrivano da sole, senza sforzo…”
Menotti gli sorrise delicatamente e gli fece il gesto di rientrare in casa.
Per i giovani era tutto così semplice, così limpido. Dopo i 40 anni invece si conosceva molto del mondo, troppo forse, e pensare che qualcosa poteva andare bene anche senza controllo era un’utopia più che un’opzione. Forse avrebbe dovuto pregare un po’. La sua devozione a Padre Pio lo avrebbe aiutato perlomeno a pensare a qualcosa di diverso. Magari anche ad ascoltare di più il suo giovane figlio e le sue idee libere.
Rientrò in casa. Trovò il ragazzo seduto a leggere sereno. Lo salutò e senza parlare gli fece una carezza sulla testa. Si diresse poi da solo verso le ripide scale di quella casa in pietra fatta quasi più di gradini che di camere.
Si fermò sulla soglia della propria stanza ed osservò lo scrittoio. Era insolitamente disordinato, pieno di partiture e appunti sparsi dei suoi studi. Casualmente si soffermò su nome: “Donizetti”. Poi spostò lo sguardo e decise di gettarsi sopra il letto per riposarsi un po’.
Una decina di minuti ad occhi chiusi prima di tornare a fare qualsiasi cosa. Una pausa, per favore, una pausa…

Senza neanche accorgersene si ritrovò nei corridoi di un grande teatro bianco. Marmi e pietre ovunque. Tutto era illuminato da una luce rasa, innaturale, bianchissima.
Camminava solo, fra gli ambienti, e il luogo sembrava non avere confini, non finire mai. Era anche completamente deserto. Pareti spoglie, decorazioni sobrie. Dopo qualche minuto di cammino scorse però una statua in lontananza.
“Oh no! Il commendatore ancora!” pensò. Poi sentì una voce, quasi un’eco.
“ Gian Carlo! Gian Carlo! Vieni qui, voglio parlare con te”. Era una voce simpatica e pacata. Non generava timore.
Menotti spaesato si guardò intorno. “Chi siete? Siete Padre Pio? “
“Capisco la tua devozione a Padre Pio ma come faccio a essere lui, è ancora vivo.”
“E allora chi? Scusate la mia diffidenza ma credo di essere nel bel mezzo di un sogno e non ho mai ricevuto visite da nessuno durante il sonno.”
“ Avvicinati, avvicinati, così posso spiegarti.”
Gian Carlo si avvicinò guardingo ed improvvisamente si rese conto che la statua che lo stava guardando non rappresentava un ipotetico commendatore mozartiano, ma il grande maestro Gaetano Donizetti!
“ Maestro, ma siete voi! Che onore!” disse con un cordiale inchino, quasi deferente.
“Suvvia, un po’ di contegno. Sono qui per chiederti un favore. Da lassù mi hanno concesso questo sogno per mettere in ordine certe mie faccende in sospeso.”
“Maestro, di quali faccende parla? Lei è un mito indiscusso nel panorama musicale del mio tempo.”
“Forse per quelli della tua epoca, ma ti assicuro che ho scritto parecchia spazzatura prima di andare al creatore, a causa dei miei inspiegabili e tremendi mal di testa.”
“Era colpa della sifilide…”
“Ah, beh, ora si spiega tutto, comunque non sono qui per parlare delle cause della mia morte ma per chiederti un favore personale.”
“Non riesco a immaginare cosa Maestro… ma continui comunque, come posso aiutarla?”. Menotti aveva uno sguardo spaesato ma curioso. Era anche emozionato: parlare con il vero Donizetti era qualcosa che non avrebbe mai immaginato di poter fare, anche se probabilmente non sarebbe andato a raccontarlo in giro. Lo avrebbero creduto pazzo. Non poteva permetterselo.
Donizetti, comunque pietrificato, sembrò assumere un’aria più granitica e solenne: “ Ho un peso sulla coscienza Gian Carlo: un’opera che poteva essere davvero interessante ma che ho scritto malamente e in fretta e furia.”
“Di quale opera parlate?”
“Del Furioso nell’Isola di San Domingo.”
“Beh… in effetti me l’hanno mostrata qualche tempo fa e…”
“Manca di smalto, vero?” constatò il compositore pietrificato e franco, per nulla irritato.
“Maestro, non mi permetterei mai di esprimere un giudizio. Ho scritto molti pezzi ma ne avessi composto anche solo uno come i vostri capolavori …”
“ Non fare troppo il modesto Gian Carlo! Hai creato un Festival internazionale incredibile che lì in paradiso faccio fatica a tenere al loro posto i cantori del coro degli angeli. Vogliono venire giù ad ascoltare i tuoi spettacoli ed anche i tuoi arrangiamenti. Non li sminuire, per amore della pace.
Gian Carlo, io sono morto, posso permettermi di essere onesto. Il “ Furioso” ha un testo orripilante e io ho scelto te per riadattarlo, puoi farlo? O devo comparire in sogno a qualcuno del Maggio Musicale?” lo minacciò la statua.
“No! No Maestro, se lei dice che sono in grado di farlo, lo faro! Riscriverò Il Furioso” rispose Menotti contrito.
“Vedo che ho scelto bene. Vedrai, sarà uno spettacolo in ogni senso. I giornali parleranno ben volentieri della tua nuova versione della mia opera. Anche oltre oceano ne parleranno. Vedrai! Ora non deludermi e mangia con gusto. La cena è pronta. “
“Maestro ma quella è La Traviata di verdi…”
“La cena è pronta, la cena è pronta… pronta…”
Menotti si risvegliò. Francis lo stava scuotendo per la spalla: “ La cena è pronta”, gli sussurrò il figlio.
Gian Carlo si alzò con uno scatto: “ Grazie Francis, la cena è pronta, Verdi, La Traviata, Donizetti, il Furioso…”.
“Cosa?” domandò confuso Francis.
“Non preoccuparti, sto bene, però stasera non ceno, devo subito mettermi al lavoro.”
Si spostò dal letto e si trasferì rapidissimo allo scrittoio.
Francis lo guardò perplesso: “ Ma è successo qualcosa?”
“Nulla che possa raccontarti… mi crederesti pazzo. Ma ora va meglio rispetto a prima. Va a mangiare. Sarà un successo! Sarà un successo! Non devo lasciarla al Maggio Fiorentino quell’opera. Cadrà giù il palco per gli applausi.”
Mentre il padre continuava a salmodiare frasi senza senso, Francis si trascinò fuori dalla stanza in silenzio, sorridendo. Chissà perché nessuno ascoltava i giovani. Era bastato smettere di pensare per avere una buona idea. Come aveva detto lui.

Foto di copertina: di proprietà del comune di Spoleto.