Ci sono delle grandi scale nella città di Perugia. Che ovvietà.
Sarebbe meglio dire, ci sono molte e faticose scale in questa città.
Quelle a cui mi riferisco non sono famose per essere ripide come la peggior vetta da scalare, no, non ti spogli arrivato all’ultimo gradino perché sei sudaticcio anche se fuori ci sono due gradi, e no, non pensi di avere problemi polmonari nonostante la giovane età. Quelle di cui parlo sono le scale del riposo, del ristoro, per i turisti durante il giorno, per i giovani durante la notte. È la Cattedrale di San Lorenzo a regalare al capoluogo umbro uno stallo dall’eterno pellegrinaggio del saliscendi. Dopo essersi fermati per un po’ ad ammirare la bellissima fontana di Piazza IV Novembre sarebbe un errore rimanere seduti e non entrare all’interno nel Duomo di Perugia.
Si varca la soglia, tutto il resto è silenzio, cerchi un posto a sedere, il soffitto arriva al cielo. Seduta sulle panche della cattedrale un amico immaginario ti scambia per Lazzaro e ti dice alzati e cammina. Il moto volontario si muove verso la navata destra e i pensieri che avevi prima trovano nuove vie indirizzate unicamente a ciò che si vede oltre la cancellata di Ferruccio della Fratta: La Deposizione dalla Croce di Federico Barocci.

Federico Barocci, a cavallo fra Manierismo e Barocco, era uno degli artisti più gloriosi e prolifici del suo tempo. Giovan Pietro Bellori, storico dell’arte secentesco, scriveva su di lui: “acciocché tutti li colori avessero tra di loro concordia e unione, senza offendersi l’un l’altro, e diceva che sì come la melodia delle voci diletta l’udito, così ancora la vista si ricrea dalla consonanza de’ colori, accompagnati dell’armonia de’ lineamenti. Chiamava perciò la pittura musica…”. Instancabile lavoratore, mirava alla concordanza dei volti, delle forme, delle composizioni e riusciva nel suo intendo malgrado la salute più che precaria. Camminava con fatica lungo le strade, cercando volti e contemplando espressioni. Il popolo, per niente artefatto, era il sublime modello di cui i suoi santi su tela avevano bisogno.
Anche il regista Pier Paolo Pasolini aveva questo modo di fare, fra burini e borgatari trovava gli attori per i suoi film che molto spesso si ritrovavano a dover rappresentare figure dell’iconografia Cristiana. In una sua pellicola, La Ricotta, proprio come il nostro pittore dipinge la Deposizione. Il regista cerca di metterla in scena, un quadro in movimento, anzi è un quadro vivente. Il cineasta si è totalmente ispirato ad altre grandi Deposizioni create nella storia dell’arte, quella di Rosso Fiorentino e Pontormo, che senza dubbio il Barocci avrà ammirato e contemplato, proprio come oggi facciamo noi con la sua. L’opera che trova spazio nell’intima cattedrale umbra risale all’incirca al 1567/1569 ed è la sorella di molti quadri, del pittore Urbinate, che si trovano in giro per il mondo in celebri musei come la National Gallery di Londra, Il Museo del Prado di Madrid o la National of Art di Washington.
La Deposizione dalla Croce, come la gran parte delle opere del tempo, ha il suo danaroso compratore, difatti il quadro fu commissionato al pittore dal Collegio della Mercanzia fondato dalla congregazione dei mercanti di Perugia.
La figura di Cristo è senza dubbio imperante nell’intera opera, esplode fuori dalla tela, dalla cattedrale, dalla piazza e dalle mura della città. Il corpo è quello di un giovane sano, delicato ma non fragile, quasi marmoreo, abbagliante. Ha del sangue sulla fronte, un piccolo segno sotto il costato, mani e piedi sono deturpati. La tortura sulla pelle, che rimane rilassata, distesa, non ha subito atrocità. Riposa dopo un inevitabile viaggio nella vita. Il suo braccio è ancora attaccato alla croce l’altro scende morbido sul suo fianco. È un po’ terreno un po’ angelico, degli angeli conserva quella sensualità pagana che impervia ad ogni malizioso e impertinente sguardo. La luce è su di lui, ma non viene dall’esterno, è dentro la tela, è fatta di colori che illuminano l’intera figura lasciando ombra solo sul panno bianco che copre le nudità. I suoi piedi poggiano sul braccio di chi è pronto a non farlo cadere per terra, reggere con mano la nuda caviglia, toccare la sua carne e non lasciarla più. Intorno a lui regna il caos, nessuno è fermo, nessun volto è tranquillo, affaccendati, indaffarati. Togli un chiodo e prendi il martello, non farlo cadere, non logorarlo ancora di più. Sua Madre è svenuta, soccorretela, badate a lei. Il vento è forte, sposta le vesti, muove le nuvole e affatica i lavoratori. Hanno tutti abiti colorati, pelle tinteggiata di pesca, gambe robuste e mani tremanti.
La luce crea il suo gioco, i colori il contrasto fra la vita e la morte.Il viaggio finisce, e come dicevo prima: tutto il resto è silenzio. Abbandoni il Duomo, e quelle scale che una volta erano libere e pronte ad accogliere, sono oggi inaccessibili a chiunque. Fuori c’è una pandemia che per un po’ avevo dimenticato. Mi conviene tornar dentro e concentrarmi su quel Cristo, che per occhi profani come i miei è un uomo da guardare, per dimenticare le sofferenze terrene nella sua, divina, figura su cui fantasticare.
