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I Rasna (così si chiamavano gli Etruschi nella loro lingua), definiti “schiavi del ventre” dai Romani, erano soliti allestire sfarzosi banchetti, durante i quali praticavano diversi giochi, tra cui quello del kottabos.

Si tratta di un gioco di probabile origine sicula, molto apprezzato dai signori etruschi di Perugia, come suggerito dal gran numero di kottaboi rinvenuti nelle necropoli della città. Anche se sono molte le raffigurazioni del kottabos nei vasi greci, va sottolineato che la stragrande maggioranza di kottaboi in bronzo proviene proprio dalle tombe etrusche di Perugia.

La dinamica del gioco, strettamente legato al consumo di vino, era semplice: i partecipanti, semidistesi sui letti da banchetto, dovevano lanciare l’ultimo sorso di vino rimasto nella coppa (speziato e più denso del nostro, poiché non filtrato) verso il kottabos posto al centro della stanza, nel tentativo di centrare il piattello in bilico sulla statuina bronzea in cima all’asta cottabica; il piccolo disco metallico, cadendo da un’altezza di circa 1,80 m, doveva poi colpire un piattello dal diametro maggiore posto a circa metà dell’altezza dell’asta. In base al suono che si otteneva, di norma simile a quello di un campanello, si potevano trarre diversi auspici d’amore.

etruschi perugiaLa coppa veniva retta con la mano destra, con il dito indice infilato in un’ansa, in modo tale da far poggiare la base del recipiente sulla parte esterna del polso. Un’altra variante del gioco prevedeva che i bersagli da colpire fossero costituiti da piccoli vasi galleggianti posti in un vaso più grande (lekàne). Dalle parole del tragediografo Sofocle, il quale racconta che tra i Siculi molti andassero più fieri di un successo al kottabos che di un buon lancio di giavellotto, si evince che centrare il piattello non era certo semplice, fatto ampiamente confermato anche dai moderni tentativi di riproposizione del gioco.

Chi coglieva il bersaglio aveva in premio dolci, leccornie, uova o baci.

Il lancio del vino aveva una forte valenza erotica: il giocatore, prima di effettuare il tiro, lo dedicava all’amata o all’amato, augurandosi di ricevere un responso propizio all’amore desiderato. Potevano partecipare anche le donne, che in Etruria erano ammesse al banchetto, costume non usuale nelle società antiche ed aspramente criticato dai Greci. Ovviamente i Rasna, che concepivano la vita ultraterrena come una prosecuzione della vita terrestre, deponevano nelle tombe, fra gli oggetti del corredo funebre, anche il kottabos.

Per osservare da vicino alcuni esemplari di questo ludico oggetto bronzeo basterà recarsi al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria o raggiungere l’Antiquarium della Necropoli del Palazzone, situato nei pressi del celebre Ipogeo dei Volumni, dove sarà facile notare le numerose urne con defunto semirecumbente che regge in mano la coppa per il vino, chissà se piena, vuota, o con le ultime gocce da scagliare sul piattello. Dal sorriso sornione e godereccio stampato sui volti dei defunti si direbbe che sapevano divertirsi, e intendevano continuare a farlo anche nell’altro mondo.

E se non possiamo ricostruire molti dei giochi che allietavano le loro giornate, la cui esistenza è suggerita anche dalla presenza di dadi in osso e pedine in pietra e pasta vitrea nei corredi tombali, di almeno uno, ora, ne conosciamo modalità di svolgimento e funzione.