Come un girovago che segue la sua rosa dei venti, lo scultore Francesco Mochi aveva deciso di lasciare prima la sua città natale, Montevarchi, poi la sua patria artistica, Firenze. Era consapevole, come lo era ogni grande artista d’ogni tempo, che per giungere all’eccellenza non doveva e non poteva essere la sua patria, bensì il mondo. Sì, esaltava le sue origini e si firmava Francesco da Montevarchi, tuttavia poteva dare alla sua città ancor più onore, scolpendo il suo nome in altri Stati italiani. Così, un dì di marzo del 1603, percorreva le strade di Roma; tra pellegrini, ambasciatori e cardinali attraversava Campo de’ Fiori, e sebbene l’audace statua con le fattezze di Giordano Bruno non vi fosse ancora eretta, vi era in Francesco il vivo ricordo del tremendo rogo, avvenuto solo tre anni prima. A quel tempo gli uomini dimenticavano con meno facilità di adesso e sapevano che l’audacia del frate domenicano poteva essere un pericolo, ma il giovane Francesco era consapevole che il suo coraggio non poteva che favorirlo. D’un tratto entrò in via dei Valigiari, oggi via dei Baullari, e percorse il suo selciato finché non calpestò il pavimento ammattonato di piazza Farnese: era determinato e doveva insistere con il suo protettore: voleva ottenere un grande incarico artistico, ad ogni costo!

Mario I Farnese, capitano generale della Chiesa e duca di Latera, aveva superato i sessant’anni, ma il suo aspetto preservava qualcosa del giovane condottiero. Calvo, con la barba che passava dal grigio cenere al candido bianco del pizzetto e le rughe che attraversavano il volto, lasciava turbato ogni suo spettatore: la sua corporatura era piuttosto statuaria e sembrava potesse competere con la forza di un giovane. Passeggiava per il cortile del palazzo e ammirava il delicato e complesso lavoro svolto da Michelangelo, mentre ad un tratto si presentò il suo protetto, Francesco:
«Faccio riverenza a vostra eccellenza, mio».
«Bando a codeste melensaggini» Francesco non fece a tempo di continuare le cerimonie complimentose che il duca lo interruppe, «veniamo al dunque: immaginando che la lettera inviata al Camarlingo Leandro Mazzocchi sia andata in sinistro, non avendo subito ottenuto risposta dal detto, ho voluto inviare con maggiore istanza una nuova preghiera per favorirvi. Qui avrete la sentenza».
Il conte tirò fuori dal farsetto una lettera e la porse al giovane scultore che si affrettò a leggere:
Ho ricevuto la gratissima di V. S. e in risposta di quanto ha detto, non dubito punto che essendo ella gentiluomo orvietano, che con caldezza et splendore ha dato servitio in codesta Patria, mi farà favore, quanto prima, di dare ordine al Sig. Francesco Mochi scultore che se ne venga a Orvieto; se l’intenda conceduto di fare una statua dell’Angelo annunziatore della Vergine, et insieme un Apostolo […].
Il giovane scultore si recò prima che poté a Carrara, per scegliere il marmo, e poi si diresse a Orvieto. Entrando nella cattedrale l’immagine era chiara, si trovava nel tempio della scultura: apostoli e santi sparsi un po’ ovunque erano stati creati da eccellenti artisti: Raffaello da Montelupo, Francesco Moschino, Giambologna, Ippolito Scalza; era chiaro, doveva dare il meglio di sé.
I lavori durarono per due anni, e ricevette i pagamenti nel corso del tempo, per un totale di 600 scudi; né più e né meno di quanto ricevettero gli altri scultori. Forse per la giovane età, o per la poca esperienza che gli si attribuiva – era il primo e il più importante incarico che ricevette – Francesco doveva essere affiancato dallo scultore e capomastro della Fabrica del duomo: Ippolito Scalza. Ma sin dal primo abbozzo in argilla che Francesco mostrò, Ippolito capì che quel giovane scultore l’avrebbe superato. L’idea di scolpire un angelo ancora in volo, nel momento di atterrare e con la veste sollevata in aria, esige una padronanza tecnica divina.
Gli esiti scultorei del Giambologna, osservati con attenzione a Firenze da Francesco, erano certo una grande lezione artistica: figure contorte, serpentinate, che spiccavano il volo; ma non di meno la pittura aveva colpito il giovane scultore; un’arte così lontana e che tuttavia voleva imitare. Sembrava che Francesco volesse mettere fine alle critiche che scultori e pittori al tempo si muovevano reciprocamente: «la scultura manca della bellezza dei colori», sosteneva il grande Leonardo, «a me soleva parere che da l’una o l’altra fussi quella diferentia che è dal sole a la luna», affermava Michelangelo; insomma, non se ne veniva a capo.
Giunti nell’aprile del 1605 l’angelo in marmo era stato collocato nel coro, a destra dell’altare maggiore, con l’iscrizione OPUS FRA.C.I MOCI DE MONTE VARCO; e il connubio tra pittura e scultura sembrava fatto: l’angelo sta per posarsi per terra e, sebbene potrebbe apparire impossibile per una scultura, si ha la sensazione che sia ancora in volo, come in un dipinto. Pare che Francesco abbia usato un espediente tecnico piuttosto inusuale, se non esclusivo: avvita il corpo dell’angelo in un turbinoso panneggio, ancora rigonfio dal volo, e giunge a renderlo così sottile da farne trasparire la luce proveniente dall’esterno; aggiunge anche dei fiorellini, sparsi qua e là, con l’idea sì di decorare la veste, ma al tempo stesso di rendere la luce che traspare più tremolante. Insomma, quel panneggio è a tratti così lucente da sembrare non più marmo, ma pittura.
Francesco guardava l’opera, era entusiasta: intuiva di aver creato qualcosa di nuovo, ma non sapeva che fosse la prima statua barocca. L’inizio di quel viaggio dove le sculture, con i loro panneggi aperti, si mescolavano con l’atmosfera, col cielo, con quelle nuvole barocche che di lì a poco gli uomini osserveranno diversamente: alzando gli occhi al cielo penseranno alle nuove teorie scientifiche.
