Avvolto da un ampio mantello nero, con il volto scavato, barbuto e con l’occhio destro sfregiato da un colpo di lancia, ricordo dello scontro avvenuto con gli spagnoli, Ascanio della Corgna, nipote di papa Giulio III, il dì dell’11 marzo 1553 irrompe nella cappella dei priori, atteso dai Conservatores ritornati appena al potere di Perugia: “le vostre signorie si rallegrino”, proferì soddisfatto, “volendo papa Giulio rimettere l’ordine e vendicarsi delle vecchie offese, e conoscendo le qualità di costui, si faccia fare una bella statua di mano di Vincenzo Danti Perugino, che fra i moderni scultori si parlerà”.
È ormai indiscusso: la guerra del sale; la difesa contro gli attacchi pontifici di Paolo III; la scomunica della città e l’immediata espulsione dei priori sono cosa passata. Giovanni Maria del Monte, un tempo Vicelegato della città, è adesso il nuovo papa, con il nome di Giulio III, e velocemente porta il buon umore al popolo e ai suoi familiari, consapevoli dei favori che avrebbero ricevuto. Per l’occasione una statua, a sua somiglianza, ne avrebbe onorato la bontà; avrebbe persino portato un messaggio ai perugini: il bene ha cacciato il malvagio.

Vincenzo Danti, poco più che ventenne, riflette sulla nuova opera. La statua, interamente di bronzo, dovrà porsi all’esterno della cattedrale, a lato del predecessore e di fronte alla superba rocca paolina, costruita appunto da Paolo III: “non è possibile” disse con fermezza lo scultore, “non si maraviglierà alcuno… sarà sempre sotto la ombra del vecchio governo”; ma tenendo in mano una copia dei Colloqui con se stesso, la soluzione non tarda ad arrivare: “il gesto; devo ingegnarmi bene di trovare il gesto conveniente, acciò che il popol possa metter l’animo giusto”. Agguanta un foglio, traccia varie linee e finalmente trova il gesto adatto: quello del Marco Aurelio del Campidoglio. Il braccio alzato sarà sì un segno di benedizione, ma altrettanto caratterizzato da una fermezza autorevole; insomma, una placida autorità.
Finalmente, con le mani sporche di argilla, Vincenzo modella la statua. Il mantello del papa inizia ad ospitare varie scene, come dei quadretti, narranti il lavoro promosso da Giulio III per il concilio tridentino – quello che avrebbe schiacciato gli eretici. Poco alla volta le immagini prendono maggior nitidezza, memori di molte influenze artistiche: il viaggio romano; il pittore Salviati; la lezione di Michelangelo; l’aristocratico Vasari e quella nuova arte dove le figure umane assumono una sorta di accentramento ideale, dove il vigoroso volume dei corpi porta l’uomo al centro di tutto. E in quelle figure Vincenzo intravede, come un sogno, l’opera finita. Addirittura inizia a elaborare quei pensieri che scriverà successivamente, nel Trattato delle perfette proporzioni: “il ritrarre il naturale”, pensava Vincenzo, “sarebbe il perfetto dell’arte; se no fusse che queste cose, prodotte dalla natura, sono le più volte imperfette”; insomma, le sue figure hanno le fattezze di un modello, di un conoscente, o ancora di un passante, ma ognuna di esse affronta un aggiustamento.
Portata a termine la statua del papa, Vincenzo si appresta a ricoprire il tutto da un sottile strato di cera d’api; insomma, sembra abbia messo una camicia sopra la figura, dove in seguito rifinisce ogni piccolo particolare: le pieghe delle vesti, le storie disegnate sul piviale, i gioielli. Poi ricopre il tutto da un massiccio strato di argilla, anch’essa perfettamente aderente alla sagoma, e il modello sembra dunque sparito: una forma incomprensibile, simile a un enorme masso, la ricopre del tutto; ma sebbene possa sembrare strano, Vincenzo si prepara a svelare l’arcano: aiutato dal padre, ottimo fonditore, riscalda quel grande involucro di modo che la cera defluisca dal foro sottostante; lasciando all’interno un sottile strato vuoto con le fattezze del papa. Alla svelta il bronzo viene fuso, trovando la giusta miscela di stagno e rame, e una volta pronto, mediante un condotto posto in alto, lo si getta dentro l’involucro. Osserva la fonditura con attenzione e gli sembra di assistere ad un gigantesco cuore pulsante, dove il bronzo ardente, muovendosi per i canali che giungono alla figura vuota, ne è il sangue bollente delle sue vene.

A causa del caldo ponderoso quel travaglio costa molta fatica: Vincenzo, il padre, e gli aiutanti, hanno abbandonato i loro farsetti, ormai logori e intinti dal sudore, e operano con addosso delle larghe camicie annerite; i priori, con i loro abiti lussuosi, osservano e commentano il tutto con gran preoccupazione: la decisione di voler fare la statua tutta per intero, piuttosto che in più parti successivamente saldate, è di molto rischiosa; più grande e complicata è la forma e più alta è la probabilità che si fallisca. Molti sono appunto i ducati spesi per comprare quel bronzo; è stata acquistata pesino una gigantesca campana, al costo di 1000 libbre.
Terminato quel lungo processo, quasi alchemico, l’enorme masso è ormai freddato; i garzoni, armati di martelli e scalpelli, incominciano ad asportare l’argilla e, un po’ alla volta, la statua di Giulio III viene allo scoperto: sembra nascere come una fenice dalle proprie ceneri.
Il dì del 20 dicembre del 1555, la statua viene collocata sul piedestallo, a fianco del duomo, e il gesto di quel braccio alzato sembra lanciare un monito alla vecchia fortezza di Paolo III; ma quell’opera non è soltanto un messaggio politico, è anche la prima commissione di Vincenzo: una sublime opera di gioielleria che gli aprirà le porte di Firenze e lo studio di un nuovo linguaggio artistico, ispirato alla maniera del grande Michelangelo.

