Dopo gli scroscianti e lunghi applausi per lo spettacolo di Peter Brook gli spettatori, al Teatro Cucinelli di Solomeo, con il cuore in tumulto lasciano la sala.
Attoniti e piacevolmente cullati dalla narrazione sussurrata di Tempest Project abbandonano il borgo, emozionati per aver assistito a un’opera abbracciata da ossimori; delicata e forte, allegra e malinconica, vecchia e nuova, romantica e cinica. Il resto è silenzio, the rest is silence, diceva in ultima battuta il principe Amleto.
Come sempre la stagione di prosa del Teatro Cucinelli non delude, nell’ultimo spettacolo prima della pandemia avevo assistito agli straordinari Families Flöz, la compagnia tedesca capace di dare espressione alle maschere morte che portano addosso. Il mio ritorno con Peter brook ha appagato ogni aspettativa.

Arrivare nel borgo medievale di Solomeo è come immergersi in una delle città invisibili di Italo Calvino. Ad ogni ora del giorno il posto cambia, non è mai lo stesso. Se arrivi la sera ti è subito chiaro che stai per entrare in un mondo incantato, fatto di fioche luci e silenzio irreale. Ti dirigi verso il teatro, fa freddo e ti avvicini ai legni che bruciano per riscaldare l’attesa. Attraverso il fuoco guardi l’anfiteatro con gli ulivi che, al primo sguardo, ti portano in un’epoca lontana, magari classica, magari. Qua ci trovi una stagione simbolo di un nuovo rinascimento teatrale
Al Teatro Cucinelli, nato dal progetto dell’architetto Massimo De Vico Fallani, ci vai per guardare uno spettacolo internazionale e privo di attori macchinosi. Al Teatro Cucinelli ci vai per vivere un momento fuori dall’ordinario, fuori dalla routine settimanale che si ripete sempre uguale a se stessa. Al Teatro Cucinelli ci vai per l’atmosfera, per il sogno e anche per dimenticare.


È lunedì otto novembre, a fine spettacolo l’imprenditore Brunello Cucinelli, rinominato dal The New Yorker The Prince of Solomeo, sale sul palco, chiama Peter Brook e gli fa ascoltare gli applausi del pubblico. Ho provato una lieve gelosia appena appresa la notizia, volevo esserci anche io, volevo che il regista sentisse le mie mani applaudire per lui e per i meravigliosi attori su quel palco.
Finalmente martedì arriva e io sono seduta fra il pubblico. Dunque, in una fredda serata di novembre, le luci si abbassano e inizia lo spettacolo.
Nella minimale scenografia emblema di un’isola deserta, nasce una storia d’amore e magia, di intrighi a corte e cospirazioni.
Prospero il Duca di Milano spodestato, impersonificato da Ery Nzaramba, racconta a sua figlia Miranda, interpretata dalla giovane francese Paula Luna, la vicenda che li ha portati lontani da casa. Diventato ormai un sovrano dai magici poteri, scatena una tempesta contro il fratello Antonio e il Re di Napoli Alonso, per farli approdare sull’isola. Il mago vuol far sposare sua figlia con il principe di Napoli Ferdinando, in modo da farla ritornare nel suo regno.
Nell’intera vicenda viene aiutato dallo spirito Ariel, portato sulla scena da un giovane prodigio del cinema internazionale Alex Lawther, famoso per aver interpretato il giovane Alan Turing in The Imitation Game e in anni più recenti per il ruolo da protagonista nella serie The End of the F***ing World.

Gli altri personaggi dell’opera teatrale sono Calibano e il principe Ferdinando, interpretati da un magnifico Sylvain Levitte,e Stefano e Trinculo interpretati dai due eccezionali e simpatici attori italiani Fabio Maniglio e Luca Maniglio
La Tempesta di Shakespeare fu rappresentata per la prima volta nel 1611 e da allora non ha mai smesso di vivere, sia nel panorama teatrale che in quello cinematografico, insomma un’opera immortale come il suo autore.
Il drammaturgo Eduardo De Filippo scrisse l’intera opera shakespeariana in napoletano e oggi, a distanza di tempo, Peter Brook insieme a Marie-Hélène Estienne l’hanno messa in scena in lingua francese. Su quel palco, gli attori, di diverse nazionalità, recitano in una lingua che dopo le prime battute cessa di essere riconosciuta in un idioma specifico, diventa una lingua primitiva che mai nessuno ha messo a tacere, come se la torre di Babele non avesse avuto mai l’effetto desiderato.