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Un palco, ad uno sguardo poco attento, potrebbe sembrare solo una semplice costruzione funzionale in compensato, legno, materiali plastici e metallo, contornata da luci e cavi elettrici di ogni forma e colore. Ad uno sguardo poco attento appunto, perché un palcoscenico è molto più di questo, soprattutto quando a farne scricchiolare le assi e farne tremare le impalcature è una leggenda della musica jazz, una delle tante che hanno calcato la scena di una delle manifestazioni più rinomate del panorama musicale jazzistico, non solo italiano: Umbria Jazz.

In questo senso, il palco della manifestazione – o sarebbe meglio dire i numerosi palchi – ha tremato più e più volte a partire dal 1973 sotto la vibrazione sonora delle big band o di fantastiche voci, fissando immagini e suoni in calce nella storia della musica mondiale.

Umbria Jazz parte dallo spazio

Le prime possenti vibrazioni si sentirono già dall’inizio, nel ’73, quando Sun Ra, nome naturale Herman Poole Blount, portò gli umbri di allora, e tutti gli ospiti richiamati al festival dalla piccola parola “jazz”, nello spazio.

Sì, nello spazio: non con un’astronave ma con il suo jazz controverso e assurdo musicato dalla sua Solar Intergalactic Arkestra.

Ma dallo spazio si doveva pur tornare giù, cascare a terra per piazzare nel proprio metro quadro di una Corso Vannucci, molto diversa da quella di oggi, un semplice telo dove sedersi ad ascoltare, in stile Hippy, stelle del Jazz come Sarah Vaughan, Dizzy Gillespie, Horace Silver, Stan Getz e molti altri.

Si conta che nel 1975 furono 25.000 i giovani ad accorrere in piazza a luglio per iniziare la rivoluzione musicale jazz che oggi conta più di cinquant’anni, e non solo quella. Fu una rivoluzione legata anche ad un’altra insurrezione politica e sociale che l’Italia negli anni stava vivendo, tra l’orrore e l’entusiasmo spaccato in due estremi, come il giovane e il vecchio, come il bianco e il nero, come quella che allora veniva definita ancora nettamente “musica nera” contrapposta alla “musica bianca”.

Fu una rivoluzione musicale quella di Umbria Jazz che si incuneò non solo tra i vicoli del centro storico di Perugia, ma anche nei giardini di Villalago o a Città della Pieve, dove Chet Baker, dopo durissime vicissitudini personali, rinacque al pubblico con un po’ del suo blues e qualche ballade sospirata, soffiata languidamente nella sua tromba.

Un soffio di vita che però non può essere preso come una metafora vera e propria della nascita del Festival: perché nel ’77 Umbria Jazz saltò e nel ’78 si cercò di suddividerne e parcellizzarne l’animo libero e incontrollabile, sotto il peso della scure degli anni di piombo.

Tentativo non riuscito. La musica non può perdere, come non possono perdere mai davvero i supereroi dei film e dei fumetti.

Umbria Jazz tornò a mostrare la sua luce possente nell’82.

Umbria jazz legends - umbria jazz come woodstock

Sgargianti anni ’80

Nel 1982 arrivarono per la prima volta a Perugia, per la manifestazione, Bobby McFerrin ed il sexy blues levigato di BBking. Edizione timida in parte fu quella, bisogna dirlo, come lo fu quella del 1983. Ma poi arrivò un soave boato , costituito in tutto e per tutto dalla musica di Miles Davis, che oltretutto tornò altre volte.  Quel 1984 Davis non suonò a Perugia, ma a Terni, perché in quegli anni Umbria Jazz la si faceva un po’ ovunque, non solo nel capoluogo.

Dopotutto, fosse stato altrimenti l’avrebbero chiamata “Perugia Jazz”. E invece no.

Ci fu una leggenda del sound che nell’85 non entrò per un pelo nella storia della Kermesse; colui che oggi può essere certamente definito un primo genio sregolato del basso elettrico: Jaco Pastorius. Non entrò direttamente in questa storia perché non salì sull’aereo che da New York lo avrebbe portato in Italia per arrivare in Umbria. Bruciò il passaporto e tanti saluti. Per fortuna anche le leggende possono essere in parte sostituite… da altre stelle almeno, e quella sera a coprire le spalle del bassista fu Meloy Tyner.

La più bella edizione di Umbria Jazz di sempre… forse 

Procedendo sulla linea del tempo si incontra uno dei concerti più assurdamente splendenti della storia di Umbria Jazz: quello del 1987 di Gil Evans assieme a niente popo di meno che Sting.

Suonarono con una band dei sogni che fece girare la testa al pubblico già di per sé eccitato. Una band mai più vista ed eguagliata, si dice, per il momento.

Alcuni nomi che provocarono l’incendio musicale dell’87? George Adams, George Lewis, Delmar Brown, Gil Goldstein, Brandford Marsalis e molti altri. Chi c’era afferma convinto che l’edizione del 1987 fu la migliore di sempre, emozionante ed in stato di grazia.

sting - Umbria jazz legends

“Notti magiche” e arrivano gli anni ’90

Fra edizioni ridotte per le “notti magiche” dei mondiali di calcio del 1990 e musica comunque stratosferica a tempo limitato, arrivarono gli anni dell’Umbria Jazz moderno, più simile a quello che conosciamo oggi: ampio, aperto anche in parte a ciò che Jazz non è. Che poi questo Festival è davvero stato mai solo un grande evento dedicato al Jazz e basta?

Perché “meno jazz”? In primis perché nel 1993 si esibì per la prima volta Pino Daniele in occasione della manifestazione estiva. Non fu etichettabile davvero come Jazzman? Forse, ma il suo successo fu tanto indimenticabile da essere coperto per quell’edizione solo da quello di Caetano Veloso, che riempì Umbria Jazz di ritmi brasiliani e cantautorato pieno di coscienza civile. Tornò anni dopo, con Gilberto Gil.

A questo punto in effetti gli anni iniziano a confondersi. È tanto mezzo secolo di festival da riassumere, da ripercorrere: splende così tanto che si rischia di rimanere accecati.

Alcuni forse direbbero che se si vuole selezionare, non si può non citare l’edizione del 1996 di Umbria Jazz: fu lei la migliore, non quella del 1987!

Perché?

Perché ospitò Phil Collins, le agili dita pianistiche di Herbie Hancock e Michel Petrucciani, la voce frizzante di Al Jarreau, i Manhattan Transfer.

A queste argomentazioni però un altro gruppo di individui insorgerebbe. Fu il 1997 l’anno migliore! Diamine, suonò Eric Clapton, slowhand!

No! Forse l’anno migliore fu il 2011, quando Prince, in pantaloni dorati, fece piovere una polvere di luccicanti coriandoli viola durante le sconvolgenti ed indimenticabili note di “Purple Rain”. Fece piovere festoni e lacrime di commozione su un’Arena Santa Giuliana in visibilio, al limite del contegno per il piacere.

Altri anni però furono segnati da Thelonious Monk (nel 2000) , da Elton John nel 2005 – anche se gira voce che fu sottotono. Come crederci? – dai Massive Attack (nel 2018) e da troppi altri nomi, come ad esempio, fra gli italiani, Bollani.

Chi scrive si era riproposta di elencare tutte le vere grandi star del jazz e non solo arrivate sui famosi palchi di metallo e legno citati inizialmente, sperando forse di riuscire a sceglierne pochi, solo alcuni diamanti dal valore inestimabile. Ma il tentativo è impossibile. Mi arrendo.

Chi o cosa può decidere se un musicista è più favoloso di un altro? Il numero di album venduti? I mesi trascorsi al primo posto in classifica? Gli ascolti su spotify? Un concerto del quale ancora si parla dopo anni? Allora molto jazz dovrebbe essere devalorizzato utilizzando questo metro di valutazione.

Il fatto è che la musica è libera e la ricerca del mito musicale spesso ingabbia e svilisce l’obiettivo di chi suona e di chi ascolta.

Una cosa forse si può dire allora, distruggendo su due piedi le spicce, seppur utili, classifiche da Hit Parade settimanale: Umbria Jazz fu ed è ancora leggendario in sé per molti motivi e per rimando chiunque vi suonò e vi suonerà, per quanto piccolo, radical chic o dimenticato, ne ha assorbito e ne assorbirà un po’ di essenza mitica, che è propria semplicemente della storia della musica, non solo di quella del Jazz.

Foto e documentazione tratte da:

Tutte le foto sono di proprietà dei rispettivi autori, o fotografi o di proprietà della Fondazione di partecipazione Umbria Jazz.