Gian Domenico Cerrini era ancora per poco solo un pittore: tra non molto il papa l’avrebbe omaggiato e per tutti sarebbe diventato il Cavalier Perugino. Il destino era scritto: anch’egli, come ogni cavaliere, doveva affrontare i suoi demoni e mancava solo quel soprannome a completare la sua condizione. Anni addietro, con il terrore di essere ucciso era fuggito da Roma, soggiornando a Firenze, e più tardi, deciso di tornare nell’Urbe, si era fermato nella la sua città natale, Perugia: credeva che le mura della piccola provincia, calda e antica culla, l’avrebbero protetto da ogni insidia; ma non servì a molto: i suoi demoni erano ossessivi.
Perugia, 1662 – Studio del pittore.
Con gli scuri serrati e l’odore acre dei colori e degli oli, lo studio di Gian Domenico appariva come un sepolcro inviolato. Avvolto nel suo mantello si era addormentato su una rigida panca e svegliatosi, stordito dal quel puzzo insopportabile, si trovò del tutto inconsapevole di ogni suo gesto; per di più, il braccio sinistro, posto sotto la testa, a mo’ di cuscino, aveva diminuito il flusso del sangue: si era del tutto addormentato. Mossi i primi gesti, quasi volesse coccolarsi, portò la mano morta sull’altro braccio; e sentì come se l’avessero afferrato. Era una vecchia sdentata che ridacchiava e lo costringeva all’immobilità. Poscia si levò un uomo alato, anch’egli vecchio, ma bello e luminoso, e la donna iniziò ad addentarsi le mani: digrignava irragionevole.

«Via… va’ via… lasciami maledetta!», strillava Gian Domenico, «…mi aiuti», chiedeva all’uomo che lo scopriva amorosamente, quasi volesse prenderlo in braccio.
Il garzone, appena arrivato, sentì le urla: lasciò cadere le tele arrotolate che teneva sottobraccio e sfondò la porta con una pedata. Solo in quel momento Gian Domenico capì di essersi inscemito e che l’odore della biacca, quel pigmento tanto candido quanto tossico, gli avvelenava la ragione.
«Maledetto Lanfranco!» disse tra sé «…e il giorno che affrescò Sant’Andrea della Valle!».
In fondo sapeva che causa di tutto fu quella cupola, scoperta nel 1627, che tanto ammirava quanto detestava per il disordine che aveva creato. Fino a quel momento gli architetti avevano progettato svariate cupole, non pensando che altri volessero dipingerle: erano pensate come opere già finite, dove le uniche decorazioni presenti erano forme geometriche; alcune semplici, altre servivano alla loro stabilità e non dovevano in alcun modo sparire. In poche presentavano le pareti perfettamente lisce, come quella che dipinse Lanfranco, e in quel caso sì che i pittori davano grande svago alla loro immaginazione.
E da allora le circostanze vollero che si accendessero svariate discussioni: chi voleva e chi non gli affreschi; chi chiedeva certe figure, fatte in un certo stile, piuttosto che in un altro; chi pretendeva finestre aperte e chi pensava fossero un disturbo estetico. Era successo il virivirì in una Roma che era un formicolare di artisti e protettori, dove tutti impugnavano spada e penna; e se gli girava lanciavano certe critiche su una nuova pittura, architettura o scultura da poco scoperta che potevano mandare per aria anni di lavoro. Ovvio che Gian Domenico venisse colpito: affrescando la cupola in Santa Maria della Vittoria, era entrato anch’egli in quel rumore; e presto vi fu chi la considerò troppo classico, dallo stile arcaico. Attaccarono perfino la sua persona, la sua umanità:
«Bacco e tabacco!».
«Dedito alla vita bella, si fece smisuratamente pagare!».
«Amante della libertà, dei divertimenti; e non volle mai moglie!».
Queste erano le frasi che giravano tra la folla. Il cardinal Rospigliosi fece persino pubblicare delle poesie che elogiassero i suoi affreschi; ma si sa, la voce del popolo è sentenziale e Gian Domenico immaginò subito i suoi aguzzini. Calava la notte e vedeva uomini celati da ampi mantelli neri, nascosti per ogni dove; e un solo pensiero lo dominava: essere ammazzato dai suoi nemici.
Alzatosi ormai da terra, contuso, con le unghie sporche e doloranti, pareva che Gian Domenico avesse davvero lottato con qualcuno. Fece aprire le finestre e un fascio di luce si gettò sulla tela che dipingeva: una madre dalla carne morbida, avvolta da un abito accogliente che pareva si confondesse col suo corpo, portava la dolce e gonfia mammella al suo bambino. Avvolto da quel traboccante amore il piccolo era sì attento a quel gesto, gli portava la mano nella mano, ma con lo sguardo andava altrove, in qualcosa di estraneo. E i colori non erano colori, ma corpo: chiari e lattiginosi pulsavano latte materno. Quell’immagine palesava tutta la purezza di un atto essenziale: mostrava la madre del mondo.
Gian Domenico guardava quella donna, trovava conforto e non vi era più niente che potesse colpirlo. Inconsapevole, aveva creato un amuleto; ma lo difese fino a quando non tentò di immaginare cosa potesse guardare il bambino, oltre il bordo della tela. Andò allora nuovamente a quei maledetti pensieri e tutto si scuriva ai suoi occhi. Poi il garzone, osservando anch’egli l’immagine, con naturalezza poggiò la sua mano sopra la spalla del maestro. Fu un delicato apprezzamento; eppure Gian Domenico balzò in piedi per lo spavento:
«Maledetta…».
