Era il 1571 e Pietro de Lunel, col suo abito talare e un bastone dall’aspetto dominante, batteva le campagne dello Stato Pontificio. Partito da Roma si dirigeva presso la valle umbra, e il suo nome echeggiava fino ai più piccoli e remoti borghi di campagna; non vi era contadino che non avesse il timore del suo arrivo.
«Ad ogni sacra immagine dovrìa bandire l’indecenza, e ogni procace bellezza!», le parole del Papa rincasavano nel suo pensiero, «…e non dimentichi: pur si dovrìa accertare che non vi sian idolatrie e superstizioni… o turpe ricerca di danaro».
Non vi era uomo o donna che non temesse di osservare quel bastone ammonitore, quasi fosse il Giudizio Finale, puntarsi diritto verso la statua del proprio santo; e ordinare che si bruciasse immantinente. Eh sì; qualche anno addietro, nel 1563, i vescovi di Roma avevano chiuso le polemiche scaturite quasi all’inizio del secolo, nel 1517, quando, un uomo dall’aspetto grassoccio, sempre vestito di nero e dallo sguardo aquilino, affisse, nella chiesa di Wittenberg, un foglio di carta con le sue 95 tesi: metteva in discussione il rapporto dei fedeli con Dio, le indulgenze e addirittura il potere del Papa. Di lì a poco si scatenò un parapiglia e anche per le opere d’arte che fino a quel momento scultori e pittori avevano creato, fu un vero sconvolgimento: lo Stato Pontificio, indotto a difendersi, aveva emanato delle leggi – «che l’arte non distragga o conturbi i fedeli!», ordinava il Papa – e più e più volte si distrussero le più antiche opere e non vi fu fedele che entrasse in chiesa e non trovasse più il suo santo protettore.

E Pietro de Lunel era determinato, forse anche più del suo collega, Pietro Camaini, anch’esso incaricato dal Papa di rimodernare le chiese umbre. Sembrava che i due facessero a gara, Patton e Montgomery: uno batteva a sud e l’altro a nord del ducato; uno vestiva un san Rocco – «questa statua è provocante e indecente!»; l’altro spogliava un san Sebastiano – «par più un villano…». Più tardi Pietro de Lunel aveva escogitato un nuovo metodo – preciso, infallibile ed economico – che il suo collega non avrebbe mai immaginato: niente più modifiche perdi tempo; bisognava bruciare tutto ciò che appariva profano e impudico.
Allontanatosi da Castel San Giovanni, Pietro de Lunel attraversò svariati borghi, fino a che si trovò nella piccola Bevagna. Diretto presso la chiesa di san Michele, non aveva ancora attraversato Porta Cannara che corvi e cornacchie iniziarono a gracchiare – più che avvertire un presagio pareva che lo riconoscessero; e che gli fossero complici.
Erano suoni assordanti, quasi raschiassero lastre di metallo; o trafiggessero anime pure. Quei pochi che lo riconobbero sparsero la voce e prontamente tutti gli abitanti serrarono porte e finestre. Solo un uomo, un pittore avanti con l’età, scrutava quell’evento e capiva che racchiudeva tutte le scelte della sua vita: era Adone Doni, ma già da piccolo lo chiamavano Dono: forse si riferivano alla sua capacità di riuscire a raffigurare quanto si trovasse ai suoi occhi.
Il parroco sapeva dell’arrivo di Pietro de Lunel, aveva ricevuto una lettera giorni addietro, e capiva che non poteva in alcun modo contraddirlo – «eppure…», pensava, «potrìa ingannarlo in tempo». Che facesse modificare una statua, o una pittura, sì, gli andava anche bene, poteva anche dare un tocco di modernità alla chiesa, ma l’idea che gli prendesse lo schiribizzo e ordinasse di distruggere la statua di un santo, una Madonna o l’immagine di Cristo, lo faceva ammattire. Si preoccupò dunque di nascondere qualche opera – persino gli inventari erano spariti – e le case attorno erano diventate il suo forziere, ma presto si rese conto che non poteva togliere tutto, sarebbe stato fin troppo evidente, e qualche opera la lasciò al suo posto, in balìa del destino. Aveva pure riferito le sue paure a quel vecchio pittore, Dono, che diretto ad Assisi si era fermato presso la sua chiesa: volveva studiare qualche vecchia scultura, eppure era chiaro che non capisse; parlava tanto di modernità.

Quando Pietro de Lunel entrò in chiesa, smisero di gracchiare quegli uccellacci; pareva che volessero ascoltare la sentenza. Il parroco gli andò incontro, ma non fece in tempo che il suo bastone si alzò, e si puntò diritto contro il crocefisso dell’altare:
«Codesta è una porcaria, vulgo da mascarati!».
«Eccellenza, ma…».
«Non c’è ma che tenga», rispose al parroco che non aveva ancora degnato di uno sguardo, «che si getti nel foco; e le sue ceneri poste nel sacrario della chiesa».
Il crocefisso si trovò in piazza. Qualcuno sbirciava dalle finestre, altri non avevano il coraggio di guardare: alzato, con ai piedi erbaccia secca, pareva un condannato a morte. Corvi e cornacchie ricominciarono a gracchiare e tutti, pure chi aveva deciso di non assistere, si fecero più e più volte il segno della croce: tremavano. Dipoi il fuoco incominciò a rinvigorirsi, finché non si attacco al corpo del Cristo: bruciava lentamente, il legno era piuttosto resistente, e il sacrestano dovette impugnare un’asta di ferro e punzonare le parti carbonizzate.
Dono Doni osservava quell’opera, apprezzava la mollezza della muscolatura – era un Dio regale –, e se prima pensava che la sua arte fosse un linguaggio nuovo, semplice ed elegante, che dava una bella rinfrescata a chiese e palazzi, adesso capiva che tutto quello che aveva creato non era nient’altro che figlio di quel Cristo, di quella scultura, di quel passato che tanto cercavano di eliminare. Con l’amaro in bocca aveva compreso che la sua pittura, ogni singola pennellata, non era altro che il segno di una sottomissione: il prezzo della sua vanità.
