Skip to main content

A Foligno si nasconde un mostro…o quel che ne rimane. Le sue sembianze sono antropomorfe, due braccia due gambe un teschio, una cassa toracica con tanto di costole. Nulla di strano in effetti, se non fosse che l’essere in questione è un enorme scheletro dalle colossali dimensioni, 24 metri di lunghezza, 9 di larghezza e circa 4 di altezza.

Sicuramente un gigante, ma con ancora due inquietanti particolari: il primo è un naso a becco d’uccello lunghissimo ed il secondo un asta metallica conficcata nell’ultima falange del dito medio della mano destra.
La chimerica creatura dorme un sonno ormai eterno all’interno delle mura della Chiesa dell’Annunziata di Foligno, chiesa sconsacrata, ormai divenuta una delle due sedi del CIAC, Centro Italiano Arte Contemporanea.

Ebbene sì, stiamo parlando di arte, anzi meglio, di Arte con la A maiuscola.

Autore dell’imponente figura è Gino De Dominicis, personaggio rinomato nel campo della storia dell’arte contemporanea , nato ad Ancona nel ’47 e morto a Roma nel 1998. Proprio dopo la sua morte la Cassa di Risparmio di Foligno acquistò questa affascinante quanto sibillina opera per poi collocarla in forma permanente nella già nominata chiesa.
Molti sono gli interrogativi che, nella meraviglia della visione di questa strana ed ingombrante presenza, nascono nella mente del visitatore, cosa o chi è? Perchè quel naso inumano? Come mai quello spillone messo lì? Insomma quei quesiti che solo l’arte riesce a richiamare a sé. Naturalmente lungi da questo contesto dare una spiegazione univoca e inappuntabile (se riuscissimo in questa impresa l’opera perderebbe parte del suo enorme fascino), ma almeno cerchiamo di entrare un più in profondità riguardo al senso e alle origini che avvolgono la Calamita.

Partenza obbligata è il “padre” dell’opera, De Dominicis, eclettico nelle sue espressioni artistiche, studia presso l’Istituto Statale d’Arte di Ancona per poi iniziare la sua attività in quella enorme calderone di personalità e opere denominata Arte Povera. Installazioni e performance sono il suo primo linguaggio fino ai primi anni ’70, per poi virare verso la figurazione, il disegno, la pittura e naturalmente la scultura. La sua ricerca tematica si spinge verso quella dicotomia universale tra mortalità e immortalità, scruta il mistero della creazione, il senso ed il significato della materia; molta carne al fuoco dunque, a sua volta condita con i sapori delle tradizioni occulte, la magia, il senso del mistero e dell’ineffabile. Vedeva l’artista dunque se stesso, come un prestigiatore, una sorta di stregone capace di spezzare le regole della natura e della fisica.

Veniamo allora a questo fantastico bestione, anche la sua genesi è ammantato di mistero, dato che nessuno era al corrente della sua creazione fatta nel più totale silenzio, nel 1988. Due anni dopo, in occasione di una mostra antologica al Museo d’Arte Contemporanea di Grenoble, viene esposta al pubblico per la prima volta. Dopo aver toccato alcune importantissime città italiane ed europee approda dunque a Foligno in pianta stabile.

Qual è insomma il potente ma oscuro significato di questo enorme essere supino le cui spoglie di gesso e resina mirano i misteri dell’universo? Il suo autore ovviamente non ne diede mai una definizione ma possiamo provare ad intuire qualcosa analizzando gli elementi che spiccano alla nostra attenzione. Il naso enormemente lungo (che ritroviamo in molte altre opere di De Dominicis) probabilmente allude ad un epoca ancora antidiluviana, un’era lontanissima nel tempo in cui l’uomo non era ancora sapiens, in cui portava tracce visibile della sua origine naturale; come una sorta di archetipo della nostra specie così simile e distante da noi da rappresentarci ma anche da creare un senso di spaesamento sulle nostre reali origini. Su tale aspetto fa gioco anche la sproporzionata grandezza, che scaturisce un immediato senso di inferiorità e di piccolezza di fronte a qualcosa che rimarrà comunque inaccessibile nel suo reale significato.

L’alieno indecifrabile è arrivato fino a noi e convoglia con il suo magnete dorato tutte le onde dell’universo su se stesso, egli è centro di questo scambio tra cielo e terra, passato dei primordi e lontano futuro; è morto eppure riesce ancora ad essere connesso con il tutto. Qui subentra la giusta scelta del contesto in cui è stato posto, una chiesa, tempio spirituale per eccellenza della società cristiana occidentale, luogo che aumenta il carico mistico della calamita e ne aumenta le possibile letture.

Achille Bonito Oliva, uno dei massimi esperti di critica d’arte del nostro tempo, in un’intervista esaltò la figura di De Dominicis, sottolineando come egli abbia fin da subito lavorato su materiali culturali piuttosto che naturali e che i suoi temi tendessero all’universale, soprattutto quelli della ricerca di un equilibrio tra le cose e dell’immortalità contro l’entropia, il deterioramento la fine.

Allora forse ecco la risposta o almeno una delle ipotetiche risposte al quesito iniziale; forse la Calamita Cosmica è proprio questo, dare la forma a quella utopia, a quella chimera che finalmente l’immortalità vinca sulla morte, possibilità che solo la creazione artistica, con il suo bagaglio di magia e mistero, riesce a compiere.

Fotografie di Cristiano Pelagracci