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Come tutte le civiltà di lunga storia, anche quella umbra o meglio quelle che si sono sviluppate tra i colli e le valli dell’Umbria, giacché non esiste una effettiva matrice comune, ma sono frutto di secoli e secoli di invasioni e di miscugli di differenti culture, anche quelle presenti nei territori dell’attuale regione Umbria, dicevamo, hanno il loro bagaglio di storie, superstizioni e ritualità, che affondano le loro radici chissà dove e chissà quando.

Alcuni mesi fa mi capitò sotto mano, in mezzo ad una pila di tomi, un piccolo libricino, poco più di settanta pagine, dal curioso titolo “Dialetti e costumanze popolari umbri”. Ora, tralasciamo i dialetti che a loro modo, anche se trasformati, possiamo ancora ascoltare tra i vicoli di qualche paesino, tra un vaso di gerani ed un filo con dei panni stesi ad asciugare … Ma delle costumanze? Quelle non si vedono né odono più. L’occasione ghiotta di poter scoprire che tipo di azioni apotropaiche e quali riti di passaggio vi fossero nel tifernate, piuttosto che nell’orvietano, senza tralasciare il perugino non poteva essere tralasciata.

Si scopre ad esempio che nelle terre del contado di Perugia, il giorno del matrimonio, la sposa doveva mettere sotto il ginocchio dell’amato un lembo della sua veste affinché non subentrasse nel loro rapporto la gelosia. Più a sud, nelle terre marscianesi invece, la forma dei chicchi di grandine decretava la natura soprannaturale della loro discesa, ovvero era per volontà divina se di forma regolare o tonda, era per volontà demoniaca se di contorni irregolari e frastagliati.

riti e costumanze - perugia

Molto curiosi i metodi vari descritti per il riconoscimento delle streghe nei territori del Trasimeno; chi sospettava di aver ricevuto il malocchio poteva ricorrere ad alcuni “trucchi” per scovare l’identità della “serva del diavolo”. Uno di questi si svolgeva in chiesa, mettendo nell’acquasantiera una chiave o un paio d’aghi legati a croce; alla fine della funzione, usciti i fedeli, chi rimaneva all’interno della casa del Signore era l’artefice dell’incantesimo demoniaco.

Spesso le vittime designate di queste magie nere erano i bambini. Il motivo di questa cattiveria nei confronti della categoria di esseri umani più fragili rispecchiava in vero la misera realtà di quel tempo: in una quotidianità povera come quella contadina (e parliamo di un periodo a cavallo tra XIX e XX secolo), era sicuramente più facile in un mondo ancora ignorante ed analfabeta, credere che il male provenisse da un sortilegio piuttosto che accettare la cruda realtà dei fatti, ovvero che il bambino si ammalava per la malnutrizione, gli stenti e la scarsa igiene, condizioni a cui i genitori non sempre riuscivano a sopperire. Così, quando il fanciullo cadeva ammalato, si doveva prendere un piccolo pezzo di stoffa della sua veste, bruciarlo fino alla carbonizzazione all’interno di una stanza completamente chiusa e aspettare le conseguenze del rituale sulla fattucchiera, questa avrebbe iniziato a sentire il dolore nel proprio corpo e sarebbe corsa a bussare alla porta per far cessare il dolore.

Spostandoci nell’area di Umbertide troviamo un’altra credenza originale nonché un poco macabra sui cattivi presagi in chiesa. Tradizione racconta che, se al momento della consacrazione dell’ostia qualcuno starnutiva, egli o qualcuno della sua famiglia sarebbe a breve trapassato a miglior vita. Più romantica invece la storiella sulla foglia d’ulivo a Città di Castello: la sera dell’Epifania gli innamorati buttavano nel fuoco del camino delle foglie d’ulivo, a seguito di una filastrocca, se queste bruciando avessero fatto salti e piroette era segno che la persona amata ricambiava il loro sentimento.

Degno di una favola nera è il “fiore nefasto” di Gualdo Tadino; pare infatti che si portasse un fiore, con tanto di incantesimo malefico, ad una persona odiata, la quale odorandolo andava velocemente in preda a tristezza e al malessere. Gli unici modi per liberarsi del la mortale macumba erano o gettare il fiore o riconsegnarlo a chi lo aveva donato, altrimenti come un fiore che appassisce si sarebbe andati incontro alla fine.

riti e costumanze - lago trasimeno

Anche nel folignate troviamo usanze dal fascino antico legate al tema della morte. Forse la più curiosa è quella legata al canto della gallina; se una gallina si fosse inaspettatamente messa a cantare come un gallo avrebbe annunciato la sicura fine del capofamiglia.  Altra pratica diffusa era l’utilizzo delle tele di ragno come medicamento per le ferite. La cosa era probabilmente dovuta al fatto che le candide tele, assorbendo il sangue in uscita dal taglio, davano l’impressione di bloccarne il flusso. Ancora legata agli animali, da sempre simboli primordiali del bene e del male, era la credenza per cui quando si imprigionava un serpente o un ramarro (comunque un rettile strisciante che richiama nell’immaginario collettivo le forze oscure), l’animale avrebbe esercitato sul proprio aguzzino la stessa e penosa fine, lo avrebbe insomma portato ad una lenta dipartita a meno che non ci fosse stata la liberazione immediata della bestiola.

Di nuovo il matrimonio torna al centro degli arcani usi nel territorio del ternano. Il rito voleva che il giorno delle nozze la donna si incamminasse verso la sua nuova dimora, cioè la casa dello sposo; lì ad attenderla, di fronte all’ingresso, si trovava la suocera con in mano un piatto contenente una polpetta. Tra le due si svolgeva un dialogo dove la più anziana chiedeva alla nuora cosa fosse venuta a portare in quell’abitazione, al che la pronta risposta della ragazza che rispondeva “la pace”. La scenetta finiva con una benedizione da parte della suocera e l’offerta della polpetta alla nuova arrivata che doveva ovviamente mangiarla.

Ad Orvieto torniamo a parlare di fatture e malocchi grazie ad un uso vendicativo delle impronte lasciate sul fango. Quando la persona odiata imprimeva le sue orme sulla terra bagnata questa veniva raccolta e messa in un sacchetto ad asciugare. La vittima designata avrebbe cessato di vivere con la completa essicazione della terra.

Quelle narrate sono tutte storie dove i rudimenti magici si miscelano simbolicamente con i pochi mezzi a disposizione della natura e dove riti provenienti da un passato remotissimo si sposano a sentimenti fin troppo umani quali la vendetta, la gelosia e la paura. Il risultato che ne scaturisce parla di noi, di ciò che eravamo e di quello che, tutto sommato, ancora siamo, al netto della moderna tecnocrazia.

Dovuta è la pubblicizzazione dell’autore del testo da cui è nato questo articolo: “Dialetti e costumanze popolari umbri” di Luigi Artegiani, Editrice Guerra, 1984.

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