“Ippolito Scalza Orvietano, che fu il migliore discepolo che in architettura e in scultura abbia avuto Michelagnolo Buonarroti ” – Guglielmo della Valle
Era una limpida mattina del 2 maggio 1578; tre uomini, con le scarpe in pelle di mucca, calpestavano le strade bianche, presso cava del Polpaccio, a Carrara. Spesso incrociavano dei contadini; alcuni indossavano degli zoccoli di legno, altri, i più poveri, camminavano a piedi nudi, ma le circostanze del tempo sembravano non destassero alcuna meraviglia; Ippolito Scalza, scultore, architetto e capomastro della fabbrica del duomo di Orvieto, insieme ai suoi collaboratori, muoveva il suo animo a ben altri problemi: “come trasportare i nove pezzi di marmo… come portarli ad Orvieto”. Ad oggi l’impresa apparirebbe semplice, considerando il frequente movimento di marmi da quei luoghi, ma la pesantezza dei blocchi, tali da poter scolpire figure di santi e apostoli di notevoli dimensioni, avrebbe provocato il loro impaludamento nei banchi di sabbia; ma Ippolito trovò comunque la soluzione, individuò un nuovo cammino che permise di muovere i marmi in sicurezza dalla spiaggia di Borneto fino alla cattedrale di Orvieto.
Trentanove giorni passarono per cavare quei marmi, ma altrettanti sette per trasportarli presso la spiaggia. Ippolito seguì in prima persona tutti i lavori; per un attento scultore la scelta del marmo era cosa seria: il carattere finale di ogni scultura si determinava dall’acquisto di un buon marmo, ma non meno importante era il gestire i soldi altrui, quelli del committente. Denari che Ippolito, da soprintendente ai lavori, amministrava con preciso controllo: gli operai, i muratori, gli scalpellini; tutti erano amministrati da lui; e quella scelta, la soluzione trovata, non fu da meno: la nuova strada era decisamente più corta, sicché i committenti risparmiarono molti danari.

Ippolito era dunque il maggior esponente artistico che si trovasse ad Orvieto, eletto capomastro già dal 1567, e, sebbene l’incarico fosse tra i più onorari a cui potesse aspirare, non sembrava esserne lieto; l’organo, il tabernacolo, le cappelle di stucco, gli apostoli e le guglie della facciata, e ancora la mirabile scultura della Pietà: un’opera michelangiolesca riformata da una teatralità spiazzante… eppure bramava un maggior apprezzamento.
Al calar della sera, posto al tavolo pieno di disegni e scartoffie illuminate da una fioca luce di candela, colante fino al legno del tavolo, afferrò un foglio e scrisse all’Opera del Duomo, l’organo amministrativo che allora gestiva i beni delle chiese:
“Sebbene per l’obblighi che ho di servire la mia città, mi sono sempre accontentato di quel compenso che mi è stato assegnato senza aver riguardo che sia stato dato maggiore ai miei antecessori, tuttavia, l’esser povero e carico di figliole femmine, mi fa ora pronto di supplicare che le piaccia di onorarmi di quel compenso che hanno dato al Mosca e al Moscino, et se l’opera della pietà è a soddisfazione, lor signorie si degnino a darne segno, come son soliti di fare con gli altri che hanno ben servito questo onorato luogo.“
Il San Tommaso ed il riscatto dell’artista
Con umiltà l’artista lavorava presso il cantiere della cattedrale, o ancora in lavori di rilievo per i palazzi dei privati, ma il compenso non gli sembrava fosse equo. La mole di lavoro, la famiglia da campare, con una prole di figlie femmine da sposare, gli destavano l’animo: “il mio lavoro, la mia arte… tanto per niente…”. L’ingratitudine economica lo travolgeva, pensava fosse legata, come una doppia faccia della stessa medaglia, ad una irriconoscenza artistica: gli delegavano sì lavori di rilievo, ma, ancora, senza badare troppo, lavori di mero controllo, quasi fosse un tecnico comunale; lo occupavano in semplici consulenze, incartamenti, perizie. Ricevette persino un richiamo dal notaio Pasquini: doveva contrarre i debiti di un defunto; per di più sconosciuto. Così si destò, prese martello e scalpello, si guardò allo specchio, e mise in opera la sua rivincita.
Il venerdì del 22 maggio 1587, alle ore 20:00, Ippolito Scalza pose in piedi, nella navata della cattedrale, la statua di San Tommaso. Nell’occasione furono tirate abbondanti botte di trombe, quelle dell’organo, e suonate le campane di tutte le chiese della città, ad onore del santo e dell’intera corte celestiale; ma il santo, le sue fattezze, erano l’autoritratto di Ippolito, con in mano gli strumenti sì di San Tommaso, ma anche del proprio lavoro: matita, compasso, squadra e righello; insomma, il tripudio delle canne d’organo e del risonare delle campane, ponevano la sua immagine nella sfera celeste di uno dei maggiori santuari del tempo.

