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“Dal profondo di un bosco e con il rumore delle cascate delle Marmore come sottofondo, affermo di avere un solo scopo nella vita che intendo perseguire con costanza: fare paesaggi” – C. Corot

Una luce fredda e ovattata percorre con fatica le ampie finestre dell’atelier; i tavoli incrostati dai più svariati colori, come governati dal caso; pennelli, disegni, bozzetti e tele sui cavalletti sono soffocati dalla penombra, sembra ne approfittino per darsi riposo; Michallon è sprofondato in una vecchia poltrona, pallido, con una coperta sulle gambe ed un disegno tra le mani, sembra lo schizzo di un antico monumento romano, afferra con le ultime forze il giovane allievo: «va’… Corot, va’ in Italia, devi redimerti da questa luce appannata, o sarà troppo tardi», e con gli occhi raggianti immaginava le valli della Sabina; «sortirò…», rispose Corot con voce cupa, «andrò in Italia e…»; il ragazzo non fece appena a terminare che Michallon chiuse gli occhi.

Tre anni passano per potersi organizzare, persuadere i genitori e partire; e sì, Corot non solo dovette convincerli di quel viaggio lungo e periglioso, ma gli fece persino un autoritratto, potendo, nel caso non tornasse più, lasciare un ricordo, un’immagine del figlio amato.

Corot, Ponte di Augusto
Corot, Papigno

Nel settembre del 1825 Corot è in viaggio, con il suo amico Karl, anch’egli un’artista; con una carrozza trainata da due magnifici cavalli attraversano la Francia, poi orridi e spaventosi dirupi, abitati da orsi, lupi e capretti selvatici.  Ad un tratto non riescono a gettare lo sguardo innanzi, l’orizzonte era coperto da rocce e montagne, passate delle ore si apre di fronte agli occhi una gola rocciosa, tanto agghiacciante quanto attraente: un ponte attraversa i due fronti: «in che diavolo di posto ci troviamo!», disse quasi con uno strillo Corot; «hai detto bene», rispose Karl”, «hai detto benissimo: che diavolo. È appunto il Ponte del Diavolo mio caro; siamo a San Gottardo, ancora un giorno e saremo in Italia».

Abbandonato ormai il ricordo delle stoffe vendute col padre, della Svizzera e delle Alpi, Corot attraversa lo stivale e, ad un giorno da Roma, giunge tra le vallate di Terni; quali parole per descrivere la commozione del pittore: un tripudio di luce che allagava ogni singola foglia delle verdi vallate. Continua il viaggio, giunge a Roma: i monumenti, la luce che li consuma lentamente, la natura e le fronde che ne avvolgono la solidità; ma i paesaggi dell’Umbria gli ritornano in mente con costanza per tutta la permanenza, finché decide di partire, di abbandonare quella città piena di straccioni e vagabondi distesi nei sagrati delle chiese.

Approfittato dell’accoglienza dei conti Graziani, a Papigno, Corot ammira il paradiso: una valle incantata. Percorrendo il fiume Velino, accompagnato da un servo messogli a disposizione, la Cascata delle Marmore gli si apre come una quinta teatrale. Inizia a recitare: «veloce come la luce la lampeggiante massa spumeggia, scuotendo l’abisso; un incessante scroscio, con la sua inesausta nube di mite pioggia, reca un eterno aprire al terreno attorno, rendendolo tutto uno smeraldo». Il vecchio servo, sebbene l’innocenza, avverte che si tratti di qualche poeta, ma, assoggettato dal servilismo, e non volendo oltraggiare l’ospite dei padroni, rivolse il suo entusiasmo con moderazione: «Signore, io sono ignorante, e mi congratulo per la vostra abilità!», allora Corot, intuendo, rispose: «Lord Byron; le sue parole descrivono con esattezza quanto vorrei fare con i colori, ma di fronte a tanto chiarore sono tormentato da un timore: non essere in grado di riprodurre la luce di questi luoghi; di vedere la miserabilità della mia pittura». Il contadino si chiuse in un riguardoso silenzio, e, trattenutisi un altro po’, si avviarono per Narni, sotto al Ponte di Augusto, poi percorsero il Velino, giungendo sulle rive di Piediluco.

Nel settembre del 1828, Jean Baptiste Camille Corot lascia l’Italia. La sua pittura cambia radicalmente la percezione di questi luoghi, ormai banalizzata da una sterile ripetizione di forme convenzionali, e dipinge la luce, addirittura ne incarna la percezione, con una sintesi così potente da attribuire al bozzetto una monumentalità mai raggiunta, fornendo il segreto di una prospettiva nuova, di un colore nuovo, di una luce nuova che saranno per i pittori impressionisti il nuovo linguaggio da raggiungere.

Corot, Cascata delle Marmore
Corot, Papigno 2