Galleria Nazionale dell’Umbria – Riaperta il 1° luglio scorso, con nel nuovo allestimento opere di Burri e Dottori.
La Galleria Nazionale dell’Umbria riapre e ci porta alla (ri)scoperta del Novecento. Il nuovo allestimento di uno dei più importanti musei italiani ha comportato due grandi cambiamenti nel percorso di visita. In primo luogo, si è dato maggiore importanza e rilievo al Perugino. Difatti, il nuovo allestimento museografico prevede due sale dedicate a Pietro Vannucci: la 16esima, che raccoglie la sua produzione più giovanile, “L’età d’oro”, ovvero quelle opere che lo portarono a Roma; e la 23esima, ove si può ammirare una versione più matura de “il meglio maestro d’Italia”. In secondo luogo, un cambio di paradigma: l’introduzione del Novecento umbro all’interno degli spazi espositivi, con un’opera fatta ad hoc e una nuova vetrata, ribadendo il dialogo tra l’arte ‘istituzionalizzata’ e quella contemporanea.


Dal 1° luglio 2022 infatti è possibile ammirare opere del XX secolo che a rotazione verranno esposte alla Galleria. Gerardo Dottori, Alberto Burri, Piero Dorazio e Adalberto Mencarelli, artisti che in Umbria sono nati o vi hanno lavorato. Quasi a metà percorso, invece, è possibile ammirare “Ductus”, un grande murales realizzato dal multi-artista riminese Roberto Paci Dalò in occasione della riapertura del Museo. Già nella Cappella dei Priori c’è Vittorio Corsini con le sue vetrate: “Riti” è un’installazione permanente che mette in dialogo il sacro, la tradizione e il contemporaneo.
Alla sala contenitrice di quel Novecento storicizzato, più precisamente la 39, si arriva dopo sette secoli di storia. Tuttavia, in mezzo una “timeline” – termine ormai entrato nel nostro vocabolario personale – che racconta, in maniera trasversale e con l’utilizzo di immagini e parole, la storia e l’arte umbre. In un grande corridoio che separa l’imponente Sala Farnese e quella delle Tovaglie perugine (XVI circa), vi è illustrato il nostro passato.
“Ductus” ripercorre i secoli, come lo fa anche la nuova GNU. Si parte dal 1236 con “Cristo deposto” (l’opera più antica della Galleria, la quale si trova nella prima sala), percorrendo la costruzione della Fontana Maggiore nel 1278, la Rivolta popolare del 1376, arrivando al 1523 con la tragica morte del Perugino, all’istituzione dell’Accademia del disegno 50 anni più tardi.
Immancabili solo la Rivolta del sale del 1540 e il XX giugno 1859, sconfitta da un lato, rivincita dall’altro, approdando nel Novecento con Dottori nel 1924, l’arresto di Capitini nel 1942, la Biennale di Venezia del 1960 con Burri e Leoncillo per poi concludersi con la primissima edizione della Marcia della pace del 1961 che, con la bandiera in bianco e nero sventolata, invita chi guarda a prenderne parte. Perché, in fondo, tutti noi ne facciamo già parte: se non della Marcia sicuramente della linea storico temporale immaginata dall’artista.

Tutto questo segnato da un grande divisore d’acque: come un Caronte innocuo e nostrano, è il Tevere a portarci al grande excursus temporale tra peste e morti, guerre, ma anche innovazioni e la voglia comune di pace, temi questi del tutto contemporanei.
L’esperienza non solo visiva ma soprattutto storica la si vive attraversando le sale 19, 20 e 21. La 19 è quella che porta il cognome del papa più odiato di sempre. Visitare questa ornatissima sala, realizzata dopo la Guerra del sale, e giungere il “condotto” storico ideato da Paci Dalò è una delle parti più suggestive dell’intero percorso.
La Sala Farnesiana è una testimonianza dura e fisica della dominazione di Paolo III. Oggettivamente bella, nasce come uno spazio che vuole ostentare ed è, per chi è abituato al pane sciapo, una sorta di rinfacciamento “storico”. Lo si lascia alle spalle, il rosso rubino imponente, per infine arrivare al nero e alla calligrafia posata di Paci Dalò, a questa parete riempita di elementi realizzati a grafite acquerellabile e inchiostro indiano. Pausa. La si ammira, è imponente. E si torna alle scene di vita quotidiana con le Tovaglie perugine, esposte alla 21esima sala.
Altri 700 anni di storia per arrivare all’ultimissima sala. Cinque opere, quattro artisti figli di quella linea temporale spartita dal Tevere, dal nostro Tevere, e di tutta la storia che la Galleria ha voluto raccontarci.
Il secolo breve, in questo primo “giro” di opere, parte con Dottori (la cui grande collezione si trova a palazzo della Penna). Ad accoglierci è il suo “Tramonto lunare” (1930), opera razionale nei tratti ma altrettanto enigmatica e mistica, piena di simboli.
Burri, dal canto suo, ci trasporta nel suo mondo variegato ed esperimentale con “Nero”, datato 1951 (nove anni prima del suo esordio a Venezia) e “Bianco e nero C2”, di vent’anni dopo.
Impossibile non notare i pungenti colori di Piero Dorazio, “Andi(i)Rivieni” (1970), listarelle forti che delineano il viavai di una città, automatismi, che mischiano alla solitudine l’incomprensione. E infine l’opera che più si scosta da tutte le altre: “Bissau Hotel à Jaipur”, realizzato un anno prima del nuovo millennio, con cui il ternano Alberto Mecarelli imprime segni di luce di una stanza di albergo in India su materiali esotici.
Si conclude così il percorso cronologico della Galleria nazionale dell’Umbria, riportandoci quasi che improvvisamente ai nostri giorni. Opere che a differenza del canone estetico e pittorico degli scorsi secoli, è astratto; e anche se instabile, quasi stranamente più solido.
La riapertura della Galleria durerà fino all’infinito. Ma tra l’arte digitale NFT, il periodo pandemico, la guerra e il grido per la pace, il riscaldamento globale, e tutti quei nomi che segnano il 2022, è lecito chiedersi come continuerà questa grande e immaginaria linea temporale. Per ora, visitare la Galleria nazionale dell’Umbria è, se non altro, un obbligo civile. Per tenere viva la storia.
