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Religione e paganesimo si fronteggiano sempre con forza nei luoghi dove il sacro è forte e possente. È in questi luoghi che nascono facilmente leggende, superstizioni e lotte fra sacro e profano. La caccia alle streghe è stata la concretizzazione di queste guerre ideologiche e spirituali, dichiarate soprattutto nei confronti del femminile.

Fu un fenomeno sociale e antropologico che coinvolse tutta l’Europa, compresa l’Umbria, forse con maggior fervore dato l’animo profondamente spirituale dei suoi abitanti.

I processi umbri per stregoneria dei quali resta traccia non sono numerosissimi, ma incuriosiscono per dovizia di particolari ed anche per la loro precocità rispetto al periodo canonico della caccia alle streghe.

Alcune note fattucchiere umbre furono Matteuccia  da Todi, Santuccia da Nocera, Luminuccia di Vincenzo di Buoninsegna e Katerina di Giorgio da Modrus.

Quest’ultimo processo è particolarmente esplicativo e tipico e permette di comprendere a pieno cosa significava per l’Italia e per l’Umbria dell’epoca accusare una donna di stregoneria.

Cosa si intende per caccia alle streghe

Il pensare comune colloca  la caccia alle streghe e le sue violenze nel periodo medievale, spesso concepito in toto, a torto, come un momento della storia del mondo estremamente oscuro e profondamente crudele.

In realtà con il termine “caccia alle streghe” ci si riferisce ad un fenomeno sociale di massa, molto complesso e variegato a seconda dell’area geografica, presente in Europa ed in America per lungo tempo, a partire dal Medioevo nelle sue forme primordiali, fino ad arrivare al 1782, anno in cui fu per l’ultima volta condannata per stregoneria una donna, Anna Goldi, nella Svizzera calvinista.

Ma il concetto di stregoneria è molto più antico. Alcune fonti scritte raccontano del processo a Teoride di Lemno, donna greca, vissuta ad Atene nel IV secolo a.C. , condannata a morte nel 338 per aver praticato degli incantesimi recando un male ad alcuni membri della comunità. Per essere una strega infatti è fondamentale l’aver arrecato un danno o un torto.

Anche i romani credevano alle streghe, ma in una maniera molto bonaria ed in un certo qual modo, superstiziosa.

La strega dei romani era difatti la classica fattucchiera, anziana e non di bell’aspetto, sporca, incline al volo nei cieli notturni, magari su scope di saggina (un’immagine che ricorda alla lontana quella della Befana).

Molti fanno risalire all’avvento del cristianesimo dell’Europa post-romana l’inizio della “caccia alle streghe” ma di fatto questa è un’imprecisione.

Fino al 1430 d.C. la Chiesa di Roma fu piuttosto chiara sulla propria posizione nei confronti della stregoneria, associata solo raramente all’eresia: il Canon Episcopi definiva voli notturni e magie “ frutti dell’immaginazione e del sogno”.

Solo dal 1435, si iniziò a credere veramente ai poteri della “strega”, un po’ a causa della stesura di alcuni testi come il Formicarius  del teologo Johannes Nider o del Malleus Maleficarum (citato anche nel “Nome della Rosa” di Umberto Eco) un po’ per la riscoperta di alcuni testi romani incentrati sull’argomento. Come riferito, per il popolo dell’antica Roma il tutto era considerato poco più che una superstizione; nella prima metà del ‘400 si cominciò a credere che invece qualcosa di vero potesse esserci.

La caccia alle streghe fu comunque un fenomeno mutevole, che assunse connotazioni sempre più aspre e drammatiche nel tempo, anche in funzione di alcune dinamiche politiche, sociali ed economiche che andarono a caratterizzare l’Europa e l’America in ben 3 secoli di storia. Si pensi ad esempio al processo per eresia di Giovanna D’Arco.

È certo che la maggior parte dei processi e delle esecuzioni, difficilmente quantificabili anche solo in Italia, ebbero come protagoniste le donne.

Ma perché soprattutto loro? Non si può parlare della caccia alle streghe con toni femministi, perché anche alcuni uomini, in misura decisamente minore, furono condannati.

Bisogna prendere comunque atto di un dato. Le donne erano molto più soggette all’osservazione ed al giudizio non solo dei propri tutori uomini, ma anche della comunità, la quale, in termini semplicistici, per rimanere stabile cercava di individuare e respingere il diverso, quindi ad esempio le “straniere” o personalità femminili più prorompenti e decisamente poco inclini all’obbedienza.

Il pudore era la caratteristica fondamentale di una donna ben voluta dal proprio gruppo sociale. L’accusa peggiore che le si poteva fare era infatti quella di essere una “meretrix”, una meretrice, cioè una donna decisamente poco propensa a rispettare il proprio marito, il proprio padre, i mariti degli altri e le regole del pudore comune di allora.

Se si desidera analizzare le ragioni religiose, comunque presenti, la strega veniva accusata perché indeboliva i poteri del Credo locale, mantenendo in vita alcuni usi e costumi pagani.

Ma chi erano queste “streghe” degne di accusa?

Erano principalmente donne poco protette, solitamente sprovviste di tutele maschili di qualsiasi tipo, di fama e di risorse economiche: ostetriche, serve, cameriere nelle taverne, guaritrici, prostitute, vedove, donne insomma di basso rango sociale ai margini della società.

Loro non potevano sfuggire al processo per stregoneria attuato dalla comunità quasi come forma di controllo della variabilità sociale e della stabilità delle proprie credenze. Molte più di quanto si crede perlomeno riuscirono a scampare alla morte.

Come funzionava un processo per stregoneria

Per accusare qualcuno o qualcuna di stregoneria esistevano delle modalità ben precise. Era anche fortemente strutturato, soprattutto dal XVI secolo in poi, l’iter processuale. Ma ciò non deve far pensare che la taccia fosse difficile da effettuare.

Nella maggior parte dei casi era possibile agire in tre modi.

Il più lineare e comprensibile, per il modo di pensare moderno, era la denuncia da parte di un accusatore con impegno dello stesso a fornire le prove. Ma era possibile anche effettuare un’accusa non manifesta, quindi praticamente in forma anonima.

Il terzo metodo, quello che caratterizza anche il processo di Katerina di Giorgio, era la denuncia effettuata da un testimone ritenuto “degno di fama e di fede”. In definitiva, se un membro della comunità aveva una buona reputazione, senza macchie, poteva tranquillamente tacciare un soggetto di stregoneria data la sua maggiore credibilità rispetto alla persona accusata, la quale  però, come già esposto, era solitamente socialmente ed economicamente debole, e spesso una donna ai margini della società.

Bastavano 5 accuse registrate di questo tipo per portarla in tribunale.

Facile era quindi trovare capri espiatori che permettessero agli abitanti di un’area geografica di spiegare fenomeni incomprensibili, oppure semplicemente vendicare, tramite l’accusa di stregoneria, un torto subito nell’ombra precedentemente.

Dopo la denuncia al tribunale locale veniva avviata la procedura di rito, quindi un iniziale giuramento e delle brevi e concise domande al denunciante che poteva benissimo essere un noto nemico dell’accusato. La deposizione veniva comunque accolta.

Il resto del processo si sviluppava solitamente con uno schema in tre parti, ripetibili ed articolabili a seconda del comportamento della “strega” e dell’area geografica nella quale veniva effettuato l’iter di condanna o assoluzione: interrogatorio, testimonianze, confessione.

L’imputata quasi sempre confessava, in quanto nella maggior parte dei processi l’ammissione di colpa veniva estorta con la tortura durante l’interrogatoria particularia, il quale seguiva il più generico e manipolatorio interrogatoria generalia.

Se l’accusata persisteva tenace nella sua posizione si dava comunque per scontato che fosse aiutata dal maligno. L’obiettivo di tutto il processo era in effetti confermare l’accusa.

Qualsiasi prova portata agli atti del processo, anche oggetti comunissimi e di uso quotidiano, come ciotole, scope, corde, poteva se necessario dimostrare la colpevolezza della donna.

Si comprende quindi come fosse difficile uscire indenni ed innocenti da un processo per stregoneria.

Ma, contrariamente a quella che in genere è la convinzione comune, non tutti i procedimenti terminavano con un rogo.

A seconda dei capi d’accusa la pena poteva variare dal taglio di un arto, al pagamento di una pena in denaro, fino alla pena di morte che comunque non veniva rilasciata con leggerezza.

In Umbria ad esempio la pena prevista solitamente per lievi atti di stregoneria nel 1430-40 era il pagamento di una multa in danaro.

C’è da dire però che molto spesso queste pene pecuniarie erano troppo onerose per l’accusata che quindi, dato l’impossibile pagamento delle stesse, veniva condannata in seguito a morte.

malleus maleficarum - katerina di giorgio - real umbria

Umbre colpevoli di stregoneria: Katerina di Giorgio ed altre

Essendo l’Umbria una terra notoriamente sensibile al sacro, una terra di santi, mistici e flagellanti, non stupisce il numero abbastanza considerevole di processi per stregoneria rimasto nella storia della regione.

Il fatto è ancora più comprensibile se si pensa che il ruolo di inquisitori al tempo era affidato ai membri degli ordini mendicanti, frati Benedettini e Francescani, più colti e formati rispetto ai semplici preti di paese.

Il caso più noto di stregoneria in Umbria è probabilmente quello Matteuccia da Todi, fra le prime donne in Europa condannata al rogo per stregoneria e bruciata viva in Piazza Monterone a Todi il 20 marzo 1438.

Gli atti del suo processo sono molto corposi e ricchi di dettagli, perciò il suo caso è così noto. Figurano ad esempio particolari curiosi, come alcune formule magiche, riferite da Matteuccia, utilizzate dalla stessa per “volare” a Benevento:

Unguento, Unguento

Mandame a la noce de Beniviento.

Supra aqua e supra ad vento

et supra ad omne maltempo

Nei primi anni della caccia alle streghe il volo notturno attraverso l’unzione di un bastone o di una scopa con un unguento era un comportamento frequentemente attribuito all’accusata e Matteuccia non fa eccezione.

Ma anche altre donne in altre aree dell’Umbria furono condannate per stregoneria: Luminuccia di Vincenzo di Buoninsegna a Perugia, Filippa da Città della Pieve, Mariana da San Sisto, Santuccia da Nocera o Katerina di Giorgio da Modrus.

alchimia - facoltà di agraria di Perugia - real umbria

Katerina di Giorgio da Modrus

Il processo di Katerina di Giorgio da Modrus è importante nella storia della stregoneria umbra perché assolutamente tipico.

La causa in questione avvenne nel 1437, un anno prima rispetto a quella ben più nota di Matteuccia di Francesco da Ripabianca a Todi, e terminò con una condanna al rogo rilasciata dal giudice Giovanni di Azonibus di Visso.

Primo elemento tipico è l’accusa di una donna “straniera”. Katerina era una cittadina di Perugia, ma le sue origini erano croate, perciò la fiducia nei sui confronti era ridotta perché non si sapeva realmente da chi, come e quando fosse nata con certezza. Era poi una serva, quindi una donna tendenzialmente priva di protezione maschile.

Altra tipicità è il capo d’accusa. Le si attribuisce la situazione di donna:

di cattiva condizione di vita e fama, una fattucchiera pubblica e rinomata, omicida e ladra”.

Come già spiegato, il pudore, la reputazione, la “fama” pubblica, erano essenziali per non incorrere in problematiche sociali ed essere benvoluti dalla propria comunità, soprattutto per le donne.

Una cattiva fama era la conditio sine qua non per essere accusate.

Katerina viene definita “fattucchiera pubblica e rinomata” per aver effettuato due malefici verso dei cittadini perugini, uno sotto commissione ed uno per proprio tornaconto.

I malefici in questione sono principalmente delle fatture d’amore, molto presenti negli atti dei processi per stregoneria, che fanno quasi tenerezza per le loro modalità di esecuzione: incisioni di ostie consacrate con le iniziali degli innamorati, formule verbali da ripetere in alcuni momenti della giornata, realizzazione di strani intingoli di erbe. Tali rituali probabilmente erano disapprovati perché alteravano in teoria gli equilibri familiari imposti, cioè il rispetto del marito o dei propri tutori maschili, oltre che i dettami religiosi.

I due rituali effettuati da Katerina furono difatti una fattura d’amore per una certa Antonia che desiderava conquistare un uomo già sposato, per la quale si era reso necessario il furto di un’ostia consacrata, ed un maleficio a danno della moglie dell’amante dell’imputata, Guiduccio, morta.

Curiosamente Guiduccio, in una posizione scomoda perché certamente impegnato in una relazione extraconiugale con la Katerina, compare fra gli accusatori.

L’omicidio di cui si parla nell’accusa è quindi proprio quello di sua moglie, Caterina, senza K.

Altri furti dei quali si accusa Katerina sono quello di alcuni fiorini a casa di Mattiolo Buzzio di Perugia nel 1432, ben 6 anni prima del processo, e di un vestito ed un panno di lana sempre del Buzzio, rubati ipoteticamente nel 1433, 5 anni prima del processo.

Il sospetto è che questo Mattiolo non fosse un accusatore totalmente in buona fede essendo stato anche lui un’amante dell’accusata.

Tutte le critiche descritte, per la concezione medievale, erano più che sufficienti per la condanna alla pena capitale, che puntuale arrivò.

Katerina venne condannata senza bisogno di torture fisiche prolungate, ma venne trascinata per le vie della città per pubblica vergogna dal soldato Angelo di Telli di Amelia, citato negli atti del processo, e quindi derisa e umiliata anche in senso fisico da tutta la comunità. Fu bruciata in piazza e il suo corpo prese fuoco come quello di qualsiasi essere umano.