Perugia, 1455 – Cappella dei Priori.
Una porzione di parete appariva candita e bagnata, come un dolce zuccherato e piacevolmente freddo – il muratore aveva appena steso un sottile strato d’intonaco e poteva anche venire voglia di mangiarlo, se non fosse stato per il suo odore acuto, quasi provocatorio –, e Benedetto Bonfigli, da buon pittore, si preoccupava di far copiare sull’intonaco i suoi disegni, ma gli allievi erano certi garzonacci sfaticati che a tratti gli facevano saltare i nervi:
«Ohé… è tardi!», sbraitava avvampato, «Oh Dio m’aiuti, c’è la zzurla! Lavorà… lavorà… c’ho delle fiche farlocche!».
«Presto!», vociava pure il muratore, «o s’asciuga tutto!».
«Giuro, Signore Iddio, che non vi fo veder nemmeno un denaro…».
Come qualsiasi maestro che dirige la sua bottega, si accendeva, anche nel veder cadere uno straccetto; ma in fondo quei garzoni non erano poi così male. Talvolta la giovinezza li trascinava, e Benedetto si preoccupava più per l’intonaco che per altro: asciugandosi, avrebbe rischiato di non poter più procedere alla stesura dei colori; tutte le immagini dovevano assorbirsi a quell’impasto bagnato, fresco: per tal motivo venne chiamata tecnica dell’affresco.
Richiamati all’ordine i giovani tiravano una linea dopo l’altra e poco alla volta appariva sempre più chiara la forma di una città; e non era Marsiglia, ma Perugia, coronata dalla basilica di San Domenico. La storia che vi si rappresentava, il miracolo del mercante, doveva prendere posto nella città francese e tuttavia Benedetto era così preso dal fermento artistico di Perugia, dove si aprivano continui e nuovi cantieri, che ne volle rappresentare la sua essenza; ma in quei disegni non vi era solo una parte di Perugia, vi si leggeva il quartiere di Porta San Pietro.
E una volta concluse le ultime rifiniture Benedetto si allontanò, distese lo sguardo, e impallidì. Si era immobilizzato in un solo istante, sudava dalle tempie e pareva fosse stato pietrificato da Medusa.

«Maestro!», chiamò uno dei garzoni, «m-maestro!», balbettò un altro; ma non ottennero alcuna risposta. I pensieri di Benedetto erano totalmente volti nel passato, in un viaggio nel tempo, dove sentiva e pativa una voce lontana, echeggiante:
«Si pronuncia e si comanda l’esecuzione finanziaria, e corporale, dei perversi pensieri» – calava in uno scenario oscuro e vorticoso – «I soprusi patiti nel detto giorno… dell’anno 1429…» – a tratti gli apparivano il volto del giudice; la sentenza in mano; il fabbro Mariotto di Cecco: il diavolo di Porta San Pietro. Appresso arrivò un bordone di sottofondo e il volume delle parole si gonfiava – «le suddette perversioni arrecate… mentre il detto Benedetto si avviava nella chiesa di S. Domenico…». Benedetto tremava al quel succedersi d’immagini e parole – «…nella predetta casa… con la forza… con la violenza… afferrò il giovane in persona…» –; non ne poteva più e sentiva delle continue lame che lo trafiggevano: sudava, si contraeva dal dolore, sputava sangue. Tutto a un tratto sentiva le parole della sentenza in modo coinciso – «sodomiti – resistendo – malvagio – brutalità» –, finché il giudice non arrivò al peggio – «il detto Mariotto di Cecco lo trascinava con la forza… voleva scappare… ma non poteva, e cominciò a gridare». Quel remoto e tremendo urlo si palesò davanti agli occhi di tutti; poi Benedetto, esamine, cadde al suolo.
Trascorsero i giorni; e i lavori procedettero senza alcun ostacolo: poco alla volta le figure si vivacizzavano, con colori sfumati, dai toni caldi, e spalancavano gli occhi a quei giovani impazienti di imparare. Ogni qual volta Benedetto disegnava, o pennellava qualcosa, chiunque vi fosse presente, dal più giovane al più anziano, osservava, silenzioso, e contemplava le sue mani, l’eleganza di ogni gesto, pensando di assistere ad una magia: associava ogni movimento ad un atto primordiale, quasi divino… a quello di un creatore.

Il dì dell’11 settembre del 1461 l’affresco era ormai completo. Benedetto aveva cesellato ogni minuzioso dettaglio: tegole, mattoni, blocchi di travertino e assi di legno erano rappresentati con la precisione di un pittore fiammingo. L’intelaiatura della vetrata in San Domenico sembrava ricamata con un filo d’oro, mentre la torre campanaria era un vero oggetto di oreficeria, un reliquario. Quel campanile verrà costruito qualche anno dopo e Benedetto, anticipatore dei tempi, ne iniziò la costruzione in quelle pareti: sembrava volesse anticipare l’architetto; donargli un’idea.
A lato di quel maestoso edificio discendeva una città; e non vi erano dubbi che fosse Perugia. Si percorrevano i suoi vicoli stretti, pieni di calcina, di muratori, di un fermento artistico allora mai visto. A quel tempo vi era un pieno cambiamento di gusto ed i palazzi, quelli più illustri, mutavano velocemente il loro aspetto: le finestre gotiche, appuntite, e talvolta sparse confusamente, si sostituivano con nuove aperture quadrate, simmetriche l’una con l’altra. E le chiese, anch’esse, subivano degli ammodernamenti, come d’altronde vi accadeva nella basilica di San Domenico: il chiostro, la nuova navata, le classicheggianti sculture di Agostino di Duccio. Tutto era nuovo e tutto doveva essere testimoniato ai posteri. Altro che Marsiglia, ma Perugia con quell’enorme mole domenicana che si palesava in tutta la sua grandezza: maestosa e divina agli occhi di tutti, bella e spietata a quelli di Benedetto. Quell’immagine non destava più la sua ammirazione, ma una ferita… un’oscura macchia indelebile.
