Il dolce tepore di maggio, portatore d’amore, risvegliava le colline che inondavano l’imponente rupe di Orvieto; così i vigneti, in piena fioritura, sorgevano freschi, avvolti da un odore pulito e inebriante.
Francesco, diversamente, pativa quel lieve calore primaverile. La forza che impiegava per martellare la statua della Vergine, quasi al termine, unita a quel caldo, lo lasciava in un bagno di sudore.
Dette qualche altro colpo di scalpello, si rinfrescò e uscì: andava all’ufficio dei Soprastanti per prendere accordi per una nuova statua, un san Filippo, e quasi gli parlasse il cuore, sentiva che di lì a poco si sarebbe scatenata una lunga controversia.
L’ufficio dei Soprastanti era angusto e, forse per i toni troppo forti o per la carenza di mobilio, le parole di Francesco e dei funzionari risuonavano come una eco di montagna:
«Solo 450 piastre, ah!» sbottava indispettivo lo scultore, «e questa è la vostra riconoscenza! Non accetterò meno di 700 scudi».

«Piano! Signor Mochi! La Reverenda Fabrica non vuole lite e differentia e usando ogni diligentia, conclude che la stima del san Filippo in marmo dovrà avere un compenso non superiore ai 600 scudi; a comparatione della statua fatta da Giambologna».
«Eh già, avete proprio una fissa con queste 600 piastre!».
«E poiché il compenso pare di molto superiore, convien che terminata la statua… la Fabrica debba chiamare due periti, al fine di valutare se il lavoro valga più o meno di quello di Giambologna».
Il volto di Francesco, con gli occhi fuori dalle orbite, era livido di collera:
«Pendaglio da forca! Questa è una truffa bella e buona».
«Signor Mochi! Moderi il linguaggio o».
«o me ne tornerò a Roma, portandomi dietro la scultura della Vergine».
I Soprastanti si guardarono silenziosi e capirono che bisognava assecondare lo scultore, o avrebbero perso una statua che stimarono meno del dovuto:
«Cosa proponete dunque, signor Mochi?».
Francesco intuì di aver afferrato un certo potere e cercò di approfittarne: propose che i due periti fossero avanzati da lui, personalmente, e che il compenso si alzasse a 650 scudi. Ovviamente i Soprastanti non accettarono: capivano bene che lo scultore sarebbe stato giudicato da due periti di certo corrotti dall’amicizia o da qualche favore a loro promesso. Insomma, fra una discussione e l’altra si concluse che l’opera sarebbe stata pagata 600 scudi, eccetto che, una volta terminata, si ritenesse di minor qualità del san Matteo di Giambologna. In tal caso avrebbero sì nominato due periti, ma uno per ogni parte.

Nel novembre del 1610, trascorso ormai un anno e mezzo, il san Filippo fu pronto e posto sull’altare. Indubbio che la Fabrica tenesse molto al risparmio i Soprastanti cominciarono a muovere i primi passi, cercando un perito che potesse screditare l’opera di Francesco. Tentarono con Nicolas Cordier, chiamato il Franciosetto, sperando che il suo legame con la corte papale potesse favorirli; ma il giovane non accettò la proposta: intuì che si sarebbe messo in mezzo a screzi che gli avrebbero fatto perdere del tempo; non cercava ostacoli e voleva concludere con serenità le sculture per il papa.
Trascorsero due mesi e il nuovo anno arrivò: era il 7 gennaio del 1611. La Fabrica elesse come suo perito Ippolito Scalza, capomastro in carica del duomo, e Francesco, saputa la notizia e conoscendo i forti legami tra l’artista e la Chiesa orvietana, si oppose fortemente. Non accettò la proposta e si recò prima che poté a Roma.
In collera per il trattamento ricevuto il giovane si consegnò al suo protettore, Mario I Farnese. Il vecchio duca, tra l’enorme potere e le notevoli amicizie di cui godeva, soprattutto presso il Tribunale della Sacra Rota, ponendo una parola qua e una moneta là, riuscì a far sequestrare alla Fabrica il podere del Palazzone. Insomma, quella che oggi noi definiremmo una comune estorsione fu il mezzo che servì al duca per aiutare il suo artista.
Allo scadere dell’anno la Chiesa orvietana ne provò di cotte e di crude. Furono mossi prima il Camerlengo, poi persino il Governatore, ma niente, il loro intento era sempre e comunque quello di abbassare il prezzo della scultura, non cogliendo appieno la lampante protezione del duca.
Tra avvocati e procuratori passarono due anni e i Soprastanti si dettero infine per vinti. Non volendo la Chiesa perdere altri soldi, gli avvocati costavano allora come oggi, e rivolendo indietro la terra confiscata, il dì del 4 febbraio del 1614 la Fabrica pagò Francesco ben 650 scudi.
Quel marmo candido, quel san Filippo così energico, era da tempo collocato in duomo, da tre anni e quattro mesi; ed era lì, sempre pronto a esibire la sua innovatività agli altri apostoli. Anni addietro, prima di principiare a scolpirlo, Francesco intuì che sarebbe stato ardentemente criticato, sicché decise di condurre un lavoro impeccabile; e quando finì, tutta la città rivide quella potenza espressiva e quella perfezione tecnica del tutto nuove: uomini e donne ostentavano appieno la loro interiorità, mentre gli abiti dai ritmi ondeggianti del tempo si sostituivano con nette e profonde pieghe, quasi un riflesso goticheggiante, destinando la luce ad un intenso e nuovo risultato pittorico. Quel giovane dava l’esempio della sua innovativa idea di arte.
