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Terminato il periodo formativo presso la bottega di Verrocchio, a Firenze, nel 1478 il giovane Perugino si trova in Umbria; tra una commissione e l’altra si prepara a una sempre e più crescente popolarità, culminando, di lì a poco, al riconoscimento del “miglior maestro d’Italia”.

Correva l’anno 1478 e, già da tre anni, un’orrida pestilenza ammorbava le terre umbre, particolarmente il contado perugino. Tra le migliaia di vittime i vivi coabitavano tra paure e angosce, riparandosi nella fede e nelle preghiere più disperate; alcuni si cimentavano in interminabili suppliche, predicando nelle campagne e nelle città; altri si dilettavano nel creare oggetti in cera o in legno, sperando potessero applicarsi in poteri divini; i più facoltosi, piuttosto, si cimentavano in donativi di oro, argento e gioielli a favore dei templi cristiani.

Anche la pittura trovò allora il suo potere taumaturgico o, almeno, così si auspicava; così gli stendardi cittadini si riempivano di santi imploranti, con ai piedi una fedele riproduzione della città, mentre nelle chiese, anche le più remote, si dipingevano innumerevoli figure divine. I più acclamati erano il martire Sebastiano, pronto a parare, come uno scudo, le frecce della pestilenza; o ancora San Rocco, con la coscia impastata da una piaga schifosa, quella del morbo.

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Il giovane maestro, distaccatosi da Firenze per trovare la sua fortuna, batteva quei luoghi, tra mendicanti scalzi e carri trainanti uomini morti; talvolta incontrava qualche medico che indossava una strana maschera a forma di becco, non molto dissimile da quanto verrà inventato dal medico di Luigi XIII. Tanto era l’orrido che osservava il pittore quanto più la sua anima e la sua mente destavano immagini piacevoli: Firenze, il Verrocchio, i colori luminosi del grande Piero della Francesca e la delicata linea del Pollaiolo si mescolavano in un’unica idea pronta a tuonare.

La presenza del pittore non dovette passare inosservata e i cittadini di Cerqueto, un piccolo borgo sulle colline occidentali della Valtiberina, lo chiamarono a sé, volendo sciogliere un voto e fermare l’imperversare del flagello. Ripararono dunque le loro vite in quelle mani, in quei pennelli soavi, se non divini, e destarono i loro animi dalla peste, almeno fino all’anno seguente, volgendo i loro sguardi non a un santo, ma una statua di un dio antico, un apollo di Prassitele; e appunto in mezzo a tanto terrore quel dio antico non destava alcuno strazio: il dolore sembrava non lo toccasse, piuttosto, quelle frecce gli gonfiavano il volto di un sentimento sconosciuto, unico, sembrava scorgere l’anima di un bambino nel corpo di un uomo adulto.

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L’inizio di un nuovo linguaggio artistico

La peste si fermò e il giovane pittore si condusse alle volte di Roma; sarà chiamato a decorazione le pareti della Cappella Sistina e la sua arte muterà nelle circostanze, ma il San Sebastiano di Cerqueto ricorrerà alla sua mente, come un’ideale, e lo replicherà più volte, con qualche variante, sia come oggetto di devozione domestica, sia all’interno di composizioni più elaborate.

Quel nudo, con i fianchi stretti e le gambe sottili, quasi molleggiate, mostrerà agli uomini un nuovo classicismo, raggiungerà effetti di grande purezza formale; il disegno definito ed elegante e il colore chiaro e pieno di luce metteranno fuori scena quelle immagini impressionanti, gli uomini e le donne perderanno le loro caratteristiche terrene, assumeranno un’aria angelica dove le lacrime saranno come delle gocce di rugiada.

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