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Penna è uno dei più importanti nomi nel mondo della letteratura italiana del XX secolo.

La sua poesia si è formata a Roma dove si è trasferito alla fine degli anni Venti, a contatto con altri grandi nomi della letteratura e del più vasto panorama culturale nazionale. Molto si sa di lui negli anni della sua maturità artistica, l’amicizia con Pasolini, Montale, Saba (solo per citare alcuni personaggi da lui conosciuti), i lavori saltuari per cercare di sbarcare il lunario, la proverbiale pigrizia, la sua propensione ad ascoltare ogni minimo malessere fisico al limite dell’ipocondria, infine la dichiarata omosessualità, ad oggi cosa di poco conto ma sicuramente fattore rilevantissimo durante tutto l’arco della sua vita, soprattutto per le malelingue che tentarono di screditarlo.

Morì indigente nella sua casa romana il 21 gennaio del 1977, il corpo fu trovato senza vita dall’amico e biografo Elio Pecora, a cui dobbiamo molto di ciò che conosciamo di Penna.

E cosa sappiamo effettivamente di lui noi, suoi conterranei? Molto poco in realtà, forse proprio perché se ne andò presto dalla natia Perugia legando la sua esistenza alla capitale, dove visse quasi tutto il suo percorso di vita (ad eccezioni di una breve parentesi milanese). Questo fatto sicuramente ce lo fa sembrare lontano, sconosciuto, un personaggio di indubbia fama letteraria ma non associabile a noi, al nostro sentire, al nostro vissuto.

Ma non è così, spulciando la sua biografia e soffermandoci proprio sugli anni della sua giovinezza e sugli scritti e le interviste in cui riaffiora il ricordo della sua città, si ritrovano non solo  i posti, ma un trasporto, un sospiro leggero, quello di chi quei luoghi li ha incastonati nel cuore, cristallizzati dentro di sé, nella serena quiete dell’animo.

Sandro Penna nasce ovviamente a Perugia il 12 giugno 1906 al numero 7 di via Mattioli (ad oggi vi è una targa memoriale), dall’unione tra Angela Antonietta Satta, nativa di Cori (in provincia di Latina) e Armando Penna, proprietario di una sorta di bazar in via Mazzini 12. Egli è il primo di tre figli, a lui seguiranno Beniamino (1907) e Elda (1913).

I coniugi cambieranno abitazione svariate volte nel giro di una manciata di anni; i loro spostamenti si possono riassumere pressapoco così: dopo Via Mattioli si trasferiscono in Via del Circo, quindi in Via Bonazzi, poi al numero 2 di Corso Vannucci, dopodichè in Via Bottinelli, segue Via Vincioli, Via del Fagiano ed infine dal 1916 fino al 1927 si fermeranno al numero 5 di Via Vermiglioli. Qui probabilmente si formano i ricordi d’infanzia del poeta, anche se nei suoi scritti biografici a volte faticherà a ricordare il luogo in cui si svolsero certi episodi visti gli impressionanti e fulminei cambi d’abitazione della sua famiglia. Ma è sicuramente in questa via che Sandro ricorda uno dei primi momenti di turbamento sensuale, quando dalla finestra spiava gli uomini a fare pipì nella latrina pubblica sulla strada, ed è ancora in questo quartiere dove insieme al fratello si esibiva in spettacoli funambolici e di prestigio ricevendo qualche soldo dai vicini e dai passanti.

Sandro è un bambino cagionevole, spesso malato, malinconico, già da giovanissimo in preda a repentini ed improvvisi cambi di umore. Le continue bronchiti lo costringono ad iniziare la scuola a 8 anni. Nel 1919 si iscrive all’Istituto Tecnico Commerciale “Vittorio Emanuele II”; non amerà mai il suo indirizzo di studi, ma è sveglio e intelligente e passa con facilità le scuole superiori. Durante la sua adolescenza, parallelamente ai libri di scuola scopre la letteratura, italiana e straniera, medium che lo avvicina a quella che sarà la sua futura espressione artistica e anche alla sua vera natura (non a caso è attratto, tra gli altri, ad autori quali Rimbaud, Gide, Wilde).

Il 1920 è l’anno della separazione dei genitori; la madre insieme alla figlia se ne va prima a Pesaro e poco dopo a Roma, sarà un duro colpo per Sandro che riverserà il suo dispiacere in uno dei suoi primi scritti. Scritti che nella sua città natale saranno ancora sporadici, ma che verranno maggiormente stimolati dall’ascolto, nel ’28, di una conferenza tenuta dal pioniere del futurismo Filippo Tommaso Marinetti.

Saranno soprattutto i diari la palestra di quella che si potrebbe definire come un’accuratissima e costante analisi di sé, del suo sentire, un’autentica diagnostica dei suoi stati umorali e ed esistenziali (stati a cui darà, tra le altre, la bellissima definizione di “cheta follia”).

Ormai uomo adulto, giunge al momento dell’atteso distacco, nel 1929 se ne va, destinazione Roma. Da qui in poi inizia la sua parabola di poeta, un autentico inizio umano e di conseguenza artistico, ma non significa che tutto il vissuto perugino non sia in qualche modo presente nella sua produzione. Non lo è in maniera palese, Perugia viene menzionata poche volte nei suoi scritti  di prosa (la poesia segue ben altri temi), ma quando succede non si può non ammirare un amore delicato e silenzioso nella descrizione di certe vie, di alcuni scorci e del riaffiorare di ricordi.

Basta leggere le sentite seppur poche pagine che riguardano il capoluogo umbro nella sua raccolta di racconti intitolata Un Pò di Febbre,  per capire come con leggeri tocchi di inchiostro sa ripresentare al lettore i luoghi del suo vissuto con mesta gioia: da Piazza Piccinino “prossima al corso tanto da intravedere i passanti” a Porta Sole “splendido panorama un poco rozzo”; dal corso che “finirà su l’infinito” indicando la terrazza dei Giardini Carducci, al ricordo del forte vento che convogliava sotto l’arco di Via dei Priori (sfido qualunque perugino a controbattere a questa affermazione) oppure il suo meravigliarsi, insieme ai coetanei compagni di giochi, dell’architettura creata dalle scalette dell’Acquedotto.

Negli scritti non si trovano solo citazioni toponomastiche però, Penna ricorda anche certi riti, piccole dinamiche del quotidiano ancora ben vive nel cittadino contemporaneo, come quella di fare più e più volte il corso, sempre, ad ogni stagione anche con la tramontana, pratica così rodata che se qualcuno del gruppo non si presentava all’appuntamento giornaliero con gli altri veniva “sospettato in disgrazia”.

Il poeta dà anche una fulminante analisi, molto puntuale e tutt’ora riscontrabile a mio avviso, del perugino che era e che è ancora: “I perugini sono troppo modesti per parlare della loro città. Sono tutto il contrario di tanti cittadini che tutti sanno”.

Perugia era ancor più di oggi un piccolo centro, tutti sanno e vedono tutto, la vita scorre più lenta e stretta rispetto ai grandi poli urbani, più variegati ed imprevedibili, un temperamento come quello di Penna, così affamato di vita e d’amore, un uomo che pretendeva nonostante tutto di essere felice non poteva cercare che altrove la propria realizzazione di vita.

Solo nel 1943 vi ritornerà per qualche giorno, con sentimenti ambivalenti, sensazioni e pensieri scritti nelle pagine del suo diario mentre sostava in Piazza Giordano Bruno, di fronte la Chiesa di San Domenico, nel pieno della calura estiva.

Infine, è in un’intervista, rilasciata per via telefonica durante gli ultimi anni di vita, che Penna dà alcune definizioni della sua città e dei suoi concittadini di una cristallina e sintetica precisione. Alla domanda del giornalista, se l’Umbria gli avesse lasciato qualcosa, il poeta risponde “Un sentimento, un ricordo di una gente o di un paesaggio, qualcosa che qualcuno potrebbe definire l’impronta di un’anima… C’è qualcosa che torna, una sorta di emozione… da cui mi sento molto preso…”.

Non soddisfatto il cronista chiede ancora al poeta se Perugia tornasse a volte nei suoi pensieri, “Sì” risponde Penna; cose belle o brutte chiede di nuovo il giornalista “Ricordi belli. Perugia era molto bella. Ma allora non c’erano automobili. Perugia era una città del silenzio”.