“Me manuchee ‘na scorpaccieta i giubbece
e sté tre dì che non poté chachere;
steva l’hore a corcon sui luoche publice,
non poteva i budella scarechere,
e me convinne de gire dal giudice
che me desse un tantin da vacuere,
e ‘l giudice mi disse: O gran ciculo,
voltosse, e demme un gran calcio tol culo.”
Dai Babilonesi, ai Greci, ai Romani, la celebrazione del carnevale vede le sue origini sin dalle prime civiltà. Simbolo di rinnovamento e passaggio dal caos all’ordine costituito, il carnevale segna un passaggio aperto tra gli inferi e la terra abitata dai vivi, le maschere diventano quindi un mezzo per dar corpo e onorare le anime. Si possono trovare ovunque nel mondo, in diverse tradizioni e culture. La conclusione delle celebrazioni avviene tipicamente con un rito purificatorio per poter riportare l’ordine, comprendente un “processo”, una “condanna”, la lettura di un “testamento” e un “funerale”, spesso attraverso il bruciamento o la decapitazione di un fantoccio, simbolo del carnevale.
In Italia, la tradizione carnevalesca è strettamente collegata al cattolicesimo; la sua fine segna l’inizio della quaresima ed ogni regione ha almeno una maschera tradizionale. In Umbria, il Bartoccio è senza dubbio la maschera più nota, comparsa in un testo per la prima volta nel 1521. Il Bartoccio è rozzo, sagace, è il tipico villano burlesco con uno spiccato accento dialettale. Proviene, con tutta probabilità, dal Pian del Tevere, tra San Martino e Torgiano.
Vestito con un gilet porpora sotto ad una giacca verde, pantaloni di velluto neri o marroni, scarpe eleganti e cappello, il Bartoccio rappresenta la figura del colono nello scenario contadino del ‘600. Ciò che lo rende particolare sono le sue bartocciate, lamentele e satire contro i liberi costumi, il governo, i debiti e insomma, tutto ciò che non funziona nella città.

Renzo Zuccherini, presidente della società del Bartoccio, cita Bonazzi per raccontare le bartocciate. Esse, infatti, “naturalmente anonime, venivano spesso attaccate su una cantonata della strada in mezzo a due lumini, in modo che tutti potessero leggere le “maldicenze”, e a passarle di bocca in bocca, prima che giungessero le guardie a stracciarle.
Si narra anche che tra Sette o Ottocento (quando le feste di Carnevale erano proibite) un Bartoccio solitario arrivasse a Perugia entrando da Porta S. Pietro e si fermasse ai crocicchi a leggere le sue bartocciate (sempre prima che arrivassero le guardie).”
Le notizie scritte sul Bartoccio non sono molte e il testo che probabilmente ci lascia più informazioni è “La cansone di Rosa e di Bartoccio e Mencarone” di Francesco Strangolini. Questo è un manoscritto del 1685 che introduce alla vita di Bartoccio, alle sue avventure e le bartocciate. La “cansone” si divide in tre parti: un dialogo tra Bartoccio e Rosa, le bartocciate e la parentela. La terza parte è forse la meno interessante in quanto si tratta di una lista di nomi e soprannomi dei parenti e amici di Bartoccio, Rosa e Mencarone. La parentela o ‘treccialglia’ mostra tutti gli intrecci familiari e amorosi tra i tre personaggi. Aiuto, inoltre, a capire meglio alcune dinamiche; ad esempio, Bartoccio e Mencarone sono parenti e Mencarone era invaghito di Rosa.
La prima parte, invece, vede Bartoccio e Rosa discutere su a chi dare in moglie Santina, possibilmente la figlia dei due. Lo scambio di battute, completamente in dialetto come il resto del testo, sembra quasi una storia completamente a sé rispetto al resto delle bartocciate. Tant’è vero che, alla fine del dialogo, l’autore dichiara la fine del parentato, suggerendo che il dialogo non fosse altro che un’introduzione alla relazione tra i tre personaggi. Il parentato inizia con l’idea del Bartoccio di dare in moglie Santina al figlio di Mencarone. Con Rosa decidono quindi di chiedere all’amico Sorbelone di aiutarli a combinare le nozze. Quando le nozze vengono confermate, il dialogo si trasforma in monologo e Bartoccio racconta la preparazione per il matrimonio e la cerimonia. Inoltre, Bartoccio informa il lettore che Santina ha un figlio, Travaglia, “la legrezza del contedo, perché ‘l più brutt’i lu’ non fu troveto […]”. Dopo aver descritto quanto fosse brutto il bambino, Bartoccio passa in flashback raccontando vari aneddoti su Rosa da giovane. Finisce così la prima parte del manoscritto e passa subito alle bartocciate. Questa seconda parte è sia la più interessante che la più lunga. Il Bartoccio inizia con un’invocazione a Rosa e una dichiarazione d’amore nei suoi confronti. Il narratore è chiaramente Bartoccio anche se in molte strofe parla di se in terza persona. Nelle bartocciate si raccontano diversi aneddoti divertenti, da Bartoccio e Mencarone che si danno a mazzate a vicenda per Rosa, a quando al Bartoccio venne un mal di pancia talmente forte perché non riusciva ad andare in bagno.
“Bartoccio una domen cor ‘na mazzocchia
assalì Mencaron giù per ‘na macchia:
dieglie un colpo tra ‘I collo e la capoccia,
che ‘l fé gire stratton ‘mo ‘na porcacchia;
glie venne a un tratto il granco nti ginocchia,
se deventò più ner che ‘na monacchia
e se non correva Renzo i Goricchio,
haveva deto ‘l culo ‘ntol cavicchio.”
Tutta la seconda parte continua così, tra descrizioni della vita del tempo, mal di pancia incurabili, lotte per l’amore di Rosa e si, anche qualche scena di sesso. L’intera opera, una volta presa la mano con un dialetto ormai quasi perso, è estremamente divertente. In mezzo ad un linguaggio certamente rozzo si nota un’innocenza ed ignoranza quasi teneri. Allo stesso tempo, leggendo la cansone, si sente la familiarità della lingua, ma anche dei luoghi e i personaggi che diventano quasi uno stampo della personalità collettiva dei cittadini di Perugia e dintorni. Nonostante sia stato scritto nel ‘600, si sentono le storie dei nostri nonni e della vita contadina che in parte ancora oggi esiste, e si respira la stessa aria di alcuni borghi e frazioni della provincia di oggi.
Il Bartoccio non è solo una maschera, ma rappresenta una serie di storie, tradizioni e cultura del nostro territorio che pian piano sono state dimenticate. Fa parte di un quadro sociale seicentesco molto particolare e vicino alla nostra storia locale, fatta per di più di lavoro sui campi che di intelletualità, a differenza di città più grandi e più vicine alle influenze europee. Nonostante sia solo una maschera carnevalesca, il Bartoccio ci racconta di noi e ci ricorda le nostre origini come Perugini, ma anche come Umbri; facendoci ridere, scherzare, ma anche riflettere.
