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Il turbinoso angelo, posto sull’altare, indicava il fascio di luce che filtrava dalla cappella. Francesco lo guardava, con le mani ancora scosse dal lavoro, e gonfio dalle lodi che aveva ricevuto, chiariva ogni suo dubbio: comprendeva che pure la statua della Vergine sarebbe stata opera sua.

«È evidente!», penava fra sé lo scultore, «quell’angelo, annunciatore di Dio, non può star lì solitario, privo di ogni significato… la Fabrica, se inizialmente portava qualche dubbio sull’arte mia, adesso dovrà chiedermi la seconda opera».

Tornato in bottega, Francesco cominciò all’istante ad abbozzare su carta la sua idea e mentre disegnava non dava molta importanza all’aspetto della Vergine; pensava, piuttosto, a come far dialogare le due sculture. Come se stesse creando un quadro, disegnò dunque due figure speculari e di dimensioni diverse: la Vergine, una volta terminata, doveva essere più grande dell’angelo, così da creare una vera illusione prospettica, affinché il messaggero divino sembrasse più lontano perché ancora in volo. Escogitata la scenografia teatrale, principiò a pensare alla forma della nuova figura: immaginava una donna posata, un contrapposto bilanciato all’ariosità dell’angelo, a una donna colta nel dolce momento di tranquillità quotidiana e che nel contempo conservi tutta la sua fierezza divina. Il giovane Francesco tra Firenze e Roma ebbe modo di ammirare molti capolavori; e trarne ispirazione non sarebbe stato difficile: Palazzo Farnese, piena di collezioni di antichità, di Muse ispiratrici, poi Firenze, con Donatello e le sue Madonne, dolci madri colte nel momento più intimo, furono ottimi esempi per creare la dualità della sua Vergine.

Finito il disegno Francesco prese dell’argilla, la ammorbidì con dell’acqua, e cominciò a modellare la figura, ma tenne per sé quell’idea per tre anni, fino al gennaio del 1608, quando la Fabrica del duomo lo richiamò a lavoro per la seconda volta.

Giovane, deciso, intraprendente e avviato il suo successo, sentiva il diritto di poter chiedere più monete di quante gliene proponessero, ma purtroppo non sapeva ancora che la Fabrica teneva molto al risparmio e che da quel giorno, un caldo pomeriggio di fine agosto, avrebbe mosso continui battibecchi con i suoi committenti. Si apprestava a sbozzare il marmo e sentì bussare alla porta della bottega:

«Ohé! Chi va là?».

«Una lettera per il signor Francesco Mochi».

«Posatela sul tavolo, pigliate quel cesto di fichi e sortite da qui».

Prese la busta con le mani unte di sudore e polvere bianca, staccò la cera lacca, e tirò fuori il foglio:

Signor Francesco Mochi, stando a quanto deciso nella consulta dei Soprastanti della Reverenda Fabrica del Duomo, si giudica l’opera vostra da farsi in marmo non di quella istessa fatica che si vede essere stato l’Angelo annunziatore. La Fabrica giudica pertanto opportuno che voi ricaviate cento piastre in meno di quanto si avea pattuito; converrà anch’egli che il nuovo lavoro valga meno della statua dell’Angelo […].

Francesco trasalì per l’irritazione, piego la lettera e si diresse verso il duomo: «Cento piastre in meno, ah! Bella beffa», diceva tra sé, «adesso mi sentiranno».

Entrò presso l’ufficio dei Soprastanti, che allora si occupavano della gestione economica del duomo, adocchiò il vecchio funzionario, incedette e gli schiaffò il foglio sul tavolo. Il vecchio, ingobbito su un plico di documenti, era così raccolto nella lettura che balzò su per lo spavento e quasi non cadde per terra. La discussione fu grande, ma alla fine Francesco ottenne un nuovo contratto, per un compenso di 525 scudi.

Nel settembre del 1609 la statua della Vergine fu terminata, ma non venne subito posizionata sull’altare. I Soprastanti della cattedrale di Orvieto erano piuttosto soddisfatti dell’opera, ma diversamente non lo era il vescovo Giacomo Sannesio; un uomo ombroso, come d’altronde lo era il suo volto impenetrabile: capelli e barba folti e neri come la pece, il volto scuro, sottolineato da grandi solchi che corrono sulla fronte, come se fosse sempre impensierito, e due occhi anch’essi neri, enormi e sottolineati da spesse sopracciglia. Questi, suscettibile e facile a impermalirsi, aveva preso in antipatia il giovane scultore per la prepotenza che ebbe prima con il vecchio funzionario poi per un battibecco di più recente, precisamente il 26 maggio, quando, nella stipula di un nuovo contratto, per la statua di un san Filippo, il giovane mostrò tutta la sua spavalderia, giudicandosi al di sopra della commissione esaminatrice. Insomma, il vescovo stimava quel ragazzo come uno spudorato e voleva dargli una lezione.

«Non pare una Vergine, è una statua pagana! una Musa antica più che una Santa!», queste erano le pasquinate che il vescovo riuscì a mettere in giro; e intanto si dette da fare per ostruire la collocazione della statua in duomo. Per tre anni la scultura fu lasciata nei depositi, finché, nel 1612, i Soprastanti contrastarono la volontà del vescovo e la Vergine fu collocata sull’altare, speculare all’angelo. In quel luogo sacro, accessibile ai fedeli se non che con lo sguardo, si ammirava la possente Vergine colta nella sua intimità; stretta al suo libro di preghiere, come a ripararsi. Raffrontata all’angelo il suo corpo pareva compresso, ma la vera energia non stava nella forma esteriore, bensì in quella interiore. Quella donna era un appassionante saggio di analisi psicologica: impaurita dall’incontro, teneva le ginocchia pronte a fuggire, ma il suo timore si contrappose alla fierezza della futura madre di Dio, e rimase lì, altera, come una statua pagana.